Ero e sono fuori, in queste settimane, in
Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a
Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e
commenti.
1) La divisione tra gli “indignati” e gli
altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di
quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli
altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si
sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di
questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non
aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si
sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria:
il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle
costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In
Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare
si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare
politica”.
2) Ma allora, si dirà, gli
indignati “veri” sono i ragazzi che incendiano le macchine e fanno quel gran
casino contro la polizia a San Giovanni? Certo che no. Qui nasce tuttavia il
grande, se non l’unico problema. Chi possono essere gli unificatori del
movimento? Chi costruisce oggi, in Italia, l’unità degli sfruttati, degli
indebitati, dei non-rappresentati?
Le risposte a questi interrogativi sono
molteplici. Tanti anni fa, Asor Rosa avrebbe detto: quei ragazzi pieni di rabbia
appartengono alla “seconda società”, essa è inorganizzabile, essa è la
non-politica. Oggi, alcuni rappresentanti del “movimento” diranno: sono
estremisti, anarchici e insurrezionalisti, quindi pericolosi, quindi
inorganizzabili. È forse vero. La conseguenza sarà allora la medesima che ne
trasse Asor trent’anni fa: sono irrappresentabili? Anche qui: forse sì. Ma per
questo li escludiamo per principio, prima ancora di aver capito perché erano
tanti e di cosa erano l’espressione? Noi non crediamo che il ritornello di Asor
Rosa possa valere come pregiudizio. A chi ce lo presentasse come tale, ci
rivolgeremmo allora agli Indignados spagnoli ed universali per avere un’altra
risposta. Gli Indignados sono un movimento dei poveri – sono anni che andiamo
indagando e parlando di precarizzazione lavorativa e esistenziale, di
pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione
finanziaria, di emarginazione sociale. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a
noi sembra che queste lotte debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il
Capitale.
Dobbiamo ricordarci che laddove, in altri paesi
d’Europa che pur conoscono grandi tradizioni di lotta, si è data l’incapacità a
mettere insieme tutte le facce della nuova povertà, la sconfitta è stata
generale, anche quando i movimenti erano duraturi e forti. La Francia, per
esempio, non produce più lotte vincenti da quando il movimento studentesco ha
smesso di congiungersi con quello delle banlieues. In Germania, non c’è più
lotta da quando i Grünen Realos-pragmatici hanno isolato e liquidato i Fundis –
gli occupanti delle case, quelli che lottavano assieme ai migranti, e avevano
assunto la dimensione dei quartieri per tentare la costruzione di istituzioni
del comune. Dobbiamo tornare a costruire un fronte dei poveri – tutti i poveri,
dalla classe media immiserita in giù.
C’è dunque una bella differenza fra stare con i
poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerarli intoccabili,
lebbrosi. Loro – quelli che spaccano – hanno diritto a dirci di no, a
rifiutarci, a preferire l’isolamento. Ma noi, non per questo li consideriamo
estranei alla povertà. Il 14 dicembre, il 15 ottobre, e tante altre volte, li
abbiamo visti in azione: alcune periferie della povertà sono scese in piazza. La
polizia e i media le hanno immediatamente riconosciute: il potere è spesso bieco
ma non è stupido. Perché i movimenti non potrebbero anche loro chiedersi chi
sono, e provare a capire prima di giudicare? Forse perché dietro alla puzza al
naso degli organizzatori, senti un rigetto di pelle?
3) Il colmo della cecità e della provocazione
dei media (e, subito dopo, del Ministero degli Interni) è stato toccato quando
hanno scelto di attaccare i movimenti NoTAV e San Precario – vale a dire le due
realtà di movimento attualmente più forti. Forse le uniche che non abbiano
aperture politiciste e che non siano interessate alla rappresentanza
parlamentare, ma che piuttosto sono democraticamente piantate nel reale, nella
società civile, e che producono effetti concreti immediati.
Dobbiamo stringerci attorno ai compagni che
subiscono queste provocazioni – cosi come attorno agli incarcerati, di cui
chiediamo la liberazione senza se e senza ma. Cos’altro fanno gli Indignados di
Barcellona per gli arrestati dopo la tentata occupazione della Camera regionale
catalana? Hanno riconosciuto che si trattava di un errore politico evidente, ma
li difendono comunque in nome dell’unità del movimento. Vogliamo continuare a
caricaturare i comportamenti pacifici degli Indignados spagnoli alla maniera di
pecore gentili?
4) Oggi solo un progetto costituente può
unificare tutti nel movimento. Non un “programma minimo” – un programma che non
dia obbiettivi concreti ma solo linee di alleanza sindacale e parlamentare.
Perché stupirsi che molti sentano questo programma minimo come un “opportunismo
massimo”?
Centrale è invece oggi un progetto costituente
che unifichi politicamente, e quindi sappia anche reagire alle eventuali
componenti distruttive del movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di
questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle
piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le
funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta
di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione
delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato.
Ma c’è ben altro. La chiave del modello
costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi
ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata
con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile -, ma
senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i
senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre
vittime del saccheggio capitalistico odierno.
Non aver paura è resistere al potere ed
esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. I ragazzi –
quelli che hanno fatto casino – esprimono, con la loro rabbia, non la capacità
ma l’incapacità di rispingere la paura del potere. Si può tuttavia probabilmente
vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei
poveri – a condizione che si abbia un programma positivo, maggioritario,
materialmente definito. Oggi quel programma del comune si è già ampiamente
manifestato nei referendum e nelle elezioni municipali, contro le macchine
partitiche. Si tratta di procedere su questo terreno.
Svolgere il tema del comune costituente nella
lotta rappresenta dunque oggi forza maggioritaria. A Reggio Emilia nel 1960, e a
Genova nel 2001, dei compagni sono stati uccisi – ma il movimento non aveva
paura, era unito, vinse perché non escludeva nessuno a priori, mise polizia e
governi davanti all’evidenza di un irresistibile ostacolo. Oggi, volendo
presentarsi con un programma minimo, cercando alleanze in una parte del ceto
politico screditata e corrotta quanto lo è il ceto politico di destra, si è
finito per rafforzare Berlusconi. Tutti dunque sembrano consapevoli che siamo
giunti ad una impasse. Un’impasse di programma prima che di metodo. Ma come
metterlo nella testa di coloro che vedono un insorto in ogni povero che non ha
più paura?
5) Siamo infine anche di fronte ad un’impasse
di metodo. Non erano stati dati obbiettivi al corteo di Roma. Di contro, a
Madrid, sono stati i palazzi del potere e le banche ad essere assediate da mezzo
milione di Indignados. Gli stessi che, immediatamente dopo, hanno ripreso le
loro attività di quartiere, uniti da un’unica organizzazione orizzontale, usando
reti, socialnetworks e twitts in modo astuto, chiamando tutti dove c’era
bisogno, su uno sfratto come nelle scuole occupate, o negli ospedali
autoamministrati.
A Barcellona, duecentomila persone si sono
ritrovate: poi si sono formati tre cortei, l’uno ha occupato un ospedale,
l’altro l’università ed un terzo un enorme magazzino per farne un centro
sociale. A Piazza San Giovanni bisognava invece arrivare per ascoltare i
politici di prima, seconda e terza generazione? Vi stupisce che nasca il
bordello che c’è stato? Qual è stato il metodo, qual è stata la gestione
politica del comune in quel caso?
Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i
movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di
cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità
della decisione – la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne
parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura
di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che
quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli
anni novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è
un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo
orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. Si
tratta di lasciargli spazio e voce.
“Lasciateci fare politica”, dicono alcuni.
Certo. Intanto, noi proviamo a costruire il movimento degli Indignados.
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