Militare, agente segreto, ministro degli Interni. Un’immagine che stride nell’immaginario di molti, a sinistra, anche in America latina. Qual è stato il suo percorso?
Vengo dalle Forze armate, sono Maggiore generale dell’esercito, mi sono formato all’Accademia militare tra l’80 e l’84. Nell’85 ho cominciato l’attività di cospiratore contro la Quarta repubblica, ero nella brigata di paracadutismo agli ordini del comandante Urdaneta Fernandez, fondatore del Movimento bolivariano rivoluzionario Mbr200 dello stato Zulia. Allora c’erano due tipologie di cospiratori, l’Mbr200 e i movimenti di resistenza popolare della sinistra, legati alla guerriglia degli anni ’60 e ’70. Ci siamo uniti. Nell’Mbr200 ho partecipato alla ribellione militare del 4 febbraio ’92 insieme al comandante Chávez. Ero capitano e mi sono occupato dell’operazione sulla Casona, la residenza presidenziale. La ribellione è fallita e sono andato in carcere per due anni e un mese. Al Cuartel San Carlo, dove poi ci hanno raggiunto anche altri gruppi arrestati nel secondo tentativo del 27 novembre, mi sono messo a studiare: il marxismo e i padri dell’indipendenza, Simon Bolivar e soprattutto il suo maestro, Simon Rodriguez. A 28 anni, avevo una formazione militare, ma nessuna base teorica per trasformare in politica la mia inquietudine, la ribellione maturata dopo la rivolta popolare dell’89, il caracazo. Allora l’esercito aveva sparato sulla folla, provocando migliaia di morti. Quando mio fratello maggiore, un marxista, mi ha chiesto cosa volessimo fare con la proprietà privata se fossimo andati al potere, non sapevo rispondere. A quel tempo siamo stati ripetutamente avvicinati da gruppi di estrema destra, convinti che volessimo seguire il modello cileno, ma li abbiamo respinti. Poi Rafael Caldera vinse le elezioni e propose un processo di pacificazione: se avessimo rinunciato all’esercito, saremmo usciti dal carcere. Accettarono in molti, io e altri no. Cominciò una trattativa. Alla fine reintegrai l’esercito, ma cominciarono le persecuzioni: trasferimenti continui, arresti e interrogatori prima di ogni evento politico. Senza garanzia e rispetto per i diritti umani. Chávez decise di lasciare la divisa per poter fare politica apertamente, perché ai militari era proibito. Mi chiese di accompagnarlo, ma io pensavo avessimo bisogno di una doppia rivoluzione, dal basso e dall’alto, perché non avevamo le forze per farne una di tipo tradizionale. Gli ho detto: Comandante, col carisma e la dialettica che ha, lei vincerà le elezioni. Si è schermito, ma è andata così, contro tutti i pronostici. Dopo la vittoria del ‘98, mi ha chiamato a dirigere la Disip, diventata Servicio Bolivariano de Inteligencia. E oggi sono anche Ministro degli Interni, Giustizia e Pace. L’esperienza politica me la sono formata prima nei Comitati bolivariani, nuclei di 8–10 persone presenti di tutti i quartieri con i quali mantenevamo i contatti dalla prigione, poi con i Circoli bolivariani che il presidente Chávez mi ha chiamato a coordinare nel 2001, agli ordini di Diosdado Cabello. Peccato che abbiamo ceduto al ricatto della destra e alla demonizzazione dei circoli e li abbiamo sciolti. A loro dobbiamo parte della vittoria sul golpe dell’aprile 2002.
La Disip evoca terrore, torture e sparizioni, vi ha operato anche l’anticastrista cubano Posada Carriles. Cos’è cambiato?
La Disip sorge quando comincia la lotta contro la guerriglia in Venezuela. Era un ibrido di intelligence e polizia al di sopra della legge in cui imperversarono personaggi come Orlando Bosch e Posada Carriles. Tutto quel che la Cia e il Mossad volevano fare in Centroamerica passava per la Disip. Quando andammo al governo, scoprimmo però che il fenomeno Chávez aveva fatto breccia anche su alcuni funzionari che si erano tenuti a distanza da quel terrore e ci appoggiavano. Ci è costato molto invertire la tendenza, allontanare quell’ombra nefasta, ma abbiamo fatto pulizia, mandando progressivamente in pensione quel personale e formandone un altro basato sulla prevenzione, la tecnica – perché tutti gli stati devono proteggersi – e i diritti umani. Per costruire un modello nostro, prendiamo il buono un po’ dappertutto, dai russi, dai cubani… Facciamo parte del Foro di intelligence iberoamericano ma lì sono ossessionati dal tema del terrorismo islamico, dall’Eta, eccetera. Noi agiamo sulle cause, e abbiamo il problema del terrorismo di estrema destra, ma da quell’orecchio il Forum non ci sente. Così abbiamo creato Fialba, Forum d’intelligence dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America: per creare meccanismi comuni di prevenzione, per esempio contro attacchi finanziari alla moneta alternativa, il Sucre, che funziona nell’Alba. Quello che spaventa i paesi capitalisti non è la nostra forza militare, ma quella di un modello alternativo.
Con la proprietà privata com’è andata? Cos’è per lei il Socialismo del XXI secolo?
Il Venezuela non è un’isola come non lo è nessun paese oggi. La globalizzazione non è né un bene né un male, è una realtà. Il socialismo che vogliamo costruire, il cammino che stiamo aprendo deve tenerne conto e al contempo avanzare con i propri principi finché il socialismo non riesce a estendersi a un arco di paesi che abbiano la forza di scontrarsi frontalmente col capitalismo. Per questo la nostra costituzione ha una flessibilità nel campo dell’economia che consente l’esistenza della proprietà privata ma promuove anche altri modelli di proprietà sociale e collettiva. Sul piano internazionale, lavoriamo alla formazione di un mondo multipolare basato su relazioni solidali e paritarie, con l’Alba, il Mercosur, Unasur, la Celac. In campo sociale, portiamo avanti una lotta senza quartiere alla povertà e all’esclusione. In quello politico, promuoviamo la massima partecipazione del popolo, perché sia soggetto delle proprie decisioni ed eserciti il suo ruolo politico. Oggi abbiamo presentato il Plan della Patria, che definisce questo socialismo. La differenza più profonda della nostra rivoluzione con quelle del passato è la scelta di usare gli stessi strumenti della democrazia rappresentativa che intendiamo trasformare. Dopo 14 anni e la ventesima elezione, il cammino è ancora lento, complicato e rischioso. Ma se sappiamo lavorare bene dando sempre più potere e organizzazione al popolo e rendendolo cosciente di essere il soggetto della sua trasformazione, il cambiamento sarà profondo e duraturo. Tuttavia, non dimentichiamo le lezioni della storia, e se la destra ci obbliga a prendere un’altra strada, non ci faremo sorprendere.L’opposizione pensa di disconoscere anche queste elezioni e si prepara a un referendum revocatorio del presidente. Quali sono i rischi?
Purtroppo l’opposizione è diretta da un gruppo come Primero Justicia che ha radici fasciste, proviene da un’organizzazione che si chiamava Tradizione famiglia e proprietà, con tanto di svastiche e contorni. Hanno il controllo sulle altre forze della Mud come Ad o Copei. Non c’è dialogo, dobbiamo conquistare un’egemonia su quella parte di popolo che li appoggia. Il giorno delle presidenziali, il 14 aprile, all’approssimarsi dei risultati, con il consenso di Maduro mi sono riunito con 2 alti dirigenti dell’opposizione. Ho chiesto loro di rispettare il patto proposto dal presidente: riconoscere il risultato, anche solo per un voto, qualunque fosse il vincitore. Ma quando hanno visto che avevamo vinto noi, hanno abbandonato il tavolo, innescando le violenze post elettorali. Pensavano che Maduro cadesse subito, poi hanno visto che così non è hanno ricominciato con i complotti, istigati dall’esterno come avveniva con Chávez. Nel 2004, abbiamo arrestato 150 paramilitari colombiani venuti a ucciderlo. Oggi sono in carcere tre sicari venuti dalla Colombia per Maduro. E Leopoldo Lopez, un leader di Voluntad popular che ha violato tutte le leggi durante il golpe del 2002 insieme a Enrique Capriles, ha promesso fuoco fumo e piombo anche per l’8 dicembre.
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