Europa è morta, viva l’Europa? Dall’inizio dell’anno, che vedrà le elezioni del Parlamento europeo — investito per la prima volta del potere di eleggere il presidente della Commissione — i paradossi e le incertezze dell’integrazione europea sono all’ordine del giorno. Da un lato, i profeti di sventura annunciano che la paralisi e la dissoluzione continuano a incombere, perché nessuna delle ricette applicate ha risolto la contraddizione insita in una costruzione politica il cui principio guida implica l’antagonismo fra gli interessi dei suoi membri.
Queste ricette hanno perpetuato la recessione, accentuato le disuguaglianze tra nazioni, generazioni e classi sociali, bloccato i sistemi politici e generato una sfiducia profonda delle popolazioni verso le istituzioni e l’integrazione europea in quanto tale.
Dall’altro lato, i sostenitori del metodo Coué (un metodo di guarigione introdotto dal farmacista francese Emile Coué, basato sull’autosuggestione positiva, ndt) colgono ogni segno «non negativo» per annunciare che ancora una volta il progetto europeo approfitta delle sue crisi per rilanciarsi, facendo prevalere l’interesse pubblico sulle differenze. Quel che, senza dubbio, fa la debolezza di tali proclami, è che a ben vedere tutti i segni invocati (per esempio, l’unione bancaria) riguardano mezze misure, recanti innovazioni ma altrettante limitazioni.
Quel che tuttavia impedisce di trattarle con sufficienza, è l’argomento della necessità: le economie delle nazioni europee sono troppo interdipendenti, le loro società troppo assoggettate a meccanismi comunitari per non temere la catastrofe che lo smantellamento dell’Unione sarebbe per tutti. Ma questo argomento si basa a sua volta sul presupposto che nella storia e nella politica la continuità vince sempre, il che significa anche che la crisi attuale avrebbe un carattere semplicemente ciclico.
In definitiva, questi giudizi si annullano e non possono portare che a giri retorici. Difettano di una maggiore profondità storica, che consenta di far comprendere quale svolta sia, in un processo che dura da oltre mezzo secolo, la «grande crisi» attuale. E mancano di un’analisi delle contraddizioni che la crisi rivela nel cuore della costruzione istituzionale, in particolare nella sovrapposizione di strategie politiche e logiche economiche. Insomma, occorre più radicalità nel valutare i cambiamenti già avvenuti, non solo a livello della distribuzione dei poteri, ma anche della definizione degli attori e del terreno di confronto tra progetti alternativi. Non saprei soddisfare un programma di questo tipo, ma illustrerò per sommi capi quel che mi sembra costituire le tre principali dimensioni d’analisi della crisi, e della sua risoluzione in un senso o nell’altro.
La prima dimensione riguarda la storia, senza la quale non capiremmo né a quali tendenze reali — non riducibili a un «progetto» o a un «piano» — corrisponde la trasformazione dell’Europa in un sistema post-nazionale, né perché il suo esito e la sua stessa forma rimangano a questo punto incerte. Insistiamo qui su due fatti, uno ben noto agli storici, e l’altro sottovalutato nel dibattito tra sostenitori e avversari del federalismo, soprattutto quando si limitano al piano dell’architettura giuridica.
La storia dell’integrazione europea è abbastanza lunga per essere passata attraverso molte fasi distinte, strettamente legate alle trasformazioni del «sistema mondo». Fasi identificabili sulla base della corrispondenza tra le estensioni successive del sistema europeo e la crescente complessità delle istituzioni che ne garantiscono l’integrazione, gestendo equilibri instabili tra sovranità nazionale e governance comunitaria. Distinguiamo dunque tre fasi: una, dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) al periodo seguito agli avvenimenti del 1968 e della crisi petrolifera (senza dimenticare la decisione di Richard Nixon contro il sistema di Bretton Woods); l’altro, dai primi anni ’70 alla caduta del sistema sovietico e alla riunificazione tedesca del 1990; l’ultima, infine, dall’allargamento a Est fino al momento della crisi aperta dall’esplosione della bolla speculativa statunitense nel 2007 e, per quanto riguarda l’Europa, dal debito sovrano della Grecia, evitato in extremis nel 2010 alle condizioni che sappiamo.
Questo momento segna l’entrata in una nuova fase? Penso di sì, anche se le tensioni che osserviamo intervengono solo dall’entrata a tappe forzate nella globalizzazione, che domina la politica comunitaria da vent’anni — o proprio per questo: perché queste tensioni, sia nazionali che sociali, hanno effettivamente raggiunto un punto di rottura. Si è aperto un periodo di incertezza e fluttuazioni, che porta con sé la possibilità di un bivio dai contorni ancora imprevedibili.
Da qui l’importanza del secondo punto. È un errore credere che l’evoluzione dell’integrazione europea segua un percorso lineare, le cui uniche variabili sarebbero l’avanzata o il ritardo rispetto al «progetto». Al contrario, ogni fase ha comportato un conflitto tra diverse vie.
La fase iniziale, dopo il 1945, si inserisce nel contesto della guerra fredda, ma anche della ricostruzione di impianti industriali e dell’istituzione di sistemi di sicurezza sociale in Europa occidentale. Comporta una forte tensione tra l’integrazione nella sfera di influenza degli Stati uniti e ricerca di una rinascita geopolitica e geo-economica dell’Europa (che va di pari passo, di fatto, con il perfezionamento del modello sociale europeo) — è questa seconda tendenza che, in pratica, prevale, beninteso in un quadro capitalista.
Succede lo stesso, con un risultato inverso, nella fase recente, a favore non di un’egemonia Usa ormai in declino, ma dell’incorporazione al capitalismo finanziario globalizzato. In Germania si è giocata la partita decisiva, risolta dalla decisione del cancelliere Gerhard Schröder (1998–2005) di raggiungere il modello della competitività industriale per mezzo di bassi salari.
Ma la questione determinante è comprendere come sono state operate le scelte e come si è trasformato il rapporto di forze nella fase intermedia, quella del condominio franco-tedesco e della «grande commissione» presieduta da Jacques Delors (1985–1995). Infatti, in quel periodo è stato avanzato il progetto di un doppio passo avanti sovranazionale, con la creazione della moneta unica e lo sviluppo dell’«Europa sociale», destinati a costituire i due pilastri del «grande mercato». Sappiamo che in realtà la prima è diventata l’istituto centrale dell’Unione (anche se non tutti gli Stati membri vi partecipano), mentre l’altro si è limitato alle disposizioni formali del diritto del lavoro. Questa inversione richiederebbe un racconto dettagliato, per evidenziare non solo le responsabilità individuali, ma le cause politiche oggettive…
* Anticipazione dell’articolo del filosofo francese pubblicato su «Le Monde diplomatique», domani in edicola con «il manifesto». Traduzione di E. G.
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