martedì 11 marzo 2014

RENZI FILOSOFO DELLA POLITICA ED INTERPRETE DI N. BOBBIO. P. FAVILLI, Il Bobbio di Renzi. La crisi letta con i Righeira, IL MANIFESTO, 7 marzo 2014

or­berto Bob­bio, uno dei grandi mae­stri del Nove­cento, nella prima edi­zione del suo Destra e sini­stra ha tro­vato un pun­tuale e deciso cri­tico in Perry Ander­son, stu­dioso tra i più impor­tanti della rin­no­vata sto­rio­gra­fia inglese. Nell’ultima edi­zione dello stesso libro, Bob­bio è stato meno for­tu­nato, gli è toc­cato il supe­ra­mento di Mat­teo Renzi. Così si potrebbe argo­men­tare para­fra­sando alcuni periodi di un notis­simo discorso di Con­cetto Marchesi.



Nume­rosi com­men­ta­tori, in que­sti giorni, hanno iro­niz­zato su quello che, invece, un gior­nale impor­tante come la Repub­blica ha pre­sen­tato, con il lin­guag­gio solenne com­mi­su­rato all’evento, come «un vero e pro­prio mani­fe­sto del capo del nuovo governo». Un mani­fe­sto, quindi, di poli­tica alta. Alta pro­prio per­ché, come si pre­tende da un mani­fe­sto, affonda le pro­prie radici in un’adeguata rifles­sione culturale.
È vero che, a parere di Eric Hob­sbawm, per­so­na­lità che ha una qual­che auto­rità per giu­di­care i feno­meni cultural-politici, in que­sti nostri tempi nes­sun mani­fe­sto «afferma qual­cosa che valga la pena di essere ripe­tuta, a meno di essere un fan delle bana­lità scritte male. (…) Per gran parte si tratta di mate­riale con cui si potreb­bero riem­pire grosse disca­ri­che». Mate­riale da rot­ta­mare, insomma. Ma, in que­sto caso non si tratta del mani­fe­sto di un tardo epi­gono del futu­ri­smo ita­liano (anche se non manca qual­che eco mari­net­tiana) bensì della rifles­sione cul­tu­rale da cui trae il senso della sua mis­sione poli­tica il «capo del nuovo governo».
Se, però, si affronta il mani­fe­sto del «capo del governo» uti­liz­zando anche il minimo degli stru­menti cono­sci­tivi neces­sari all’analisi di un testo che si vuole impor­tante, ebbene via via che si pro­cede nella let­tura si mesco­lano sen­sa­zioni di imba­razzo e di incre­du­lità. Imba­razzo per la man­canza di pudore, di ver­go­gna, forse di con­sa­pe­vo­lezza, nel con­ce­pire un testo così basso da parte di un per­so­nag­gio poli­tico posto così in alto. Incre­du­lità per­ché alle «bana­lità scritte male» si aggiun­gono anche imper­do­na­bili e gra­vis­simi errori di fatto.
Natu­ral­mente l’alto per­so­nag­gio, tran­si­tato in poco tempo da un pic­colo potere di pro­vin­cia ad uno dei mas­simi poteri dello Stato, potrebbe rispon­dere a osser­va­zioni di tal tipo con le parole che Ber­tolt Bre­cht mette in bocca ad Arturo Ui: «… non ha impor­tanza quel che pensa/ il pro­fes­sore o que­sto o quel saccente:/ importa come l’uomo della strada s’immagina il padrone. E basta». Ed infatti que­sto è il punto. Certo in que­sto caso la «padro­nanza» deve in parte essere divisa con l’antico padrone Ber­lu­sconi, ma la logica di Arturo Ui rimane la stessa.
Gli uomini poli­tici che eser­ci­tano un ruolo impor­tante, un ruolo in grado di influen­zare lar­ghe masse di cit­ta­dini, hanno sem­pre cer­cato in rifles­sioni, in genere sto­ri­che, le moti­va­zioni pro­fonde delle loro scelte, delle pro­spet­tive non con­tin­genti da indi­care. Tra la qua­lità della rifles­sione e la qua­lità delle scelte poli­ti­che c’è un evi­dente rap­porto. Anzi, spesso è stata pro­prio la qua­lità della rifles­sione cul­tu­rale a dare il senso di una poli­tica, molto di più delle parole del momento della poli­tica. Si pensi al Discorso su Gio­litti di Togliatti.
Desta stu­pore una rifles­sione sul tema in oggetto fatta nel 1950, in un clima di duris­simo scon­tro poli­tico ed ideo­lo­gico, in un clima di repres­sione dei movi­menti popo­lari, in un clima di peri­coli auto­ri­tari, in un clima che sem­brava pre­lu­dere ad una pos­si­bile fine dell’agibilità poli­tica per i «social­co­mu­ni­sti», una rifles­sione fatta da un diri­gente poli­tico di primo piano, pro­ta­go­ni­sta di quello scon­tro. Stu­pore per la distanza abis­sale tra quella dimen­sione poli­tica intel­let­tuale e quella con cui ci stiamo confrontando.
Stu­pore per una rifles­sione che, pur par­tendo da una con­tin­genza poli­tica par­ti­co­lare, la pole­mica con la prassi dega­spe­riana di governo, resta del tutto sul piano del sapere sto­rico, con­dotta con gli stru­menti della migliore meto­do­lo­gia sto­rica, pro­prio come avrebbe potuto fare uno sto­rico pro­fes­sio­nale. Stu­pore per un discorso che non è sol­tanto su Gio­vanni Gio­litti, ma pro­prio sul rifor­mi­smo ine­vi­ta­bile, e da parte di una per­so­na­lità che, in sede di poli­tica con­tin­gente, avrebbe con­si­de­rato insul­tante essere con­si­de­rata riformista.
Tutt’altro oriz­zonte quando, non casual­mente, comin­ciano a deli­nearsi con rela­tiva chia­rezza i primi effetti del muta­mento del ciclo di accu­mu­la­zione. Il sag­gio di Prou­d­hon pub­bli­cato a firma Craxi nel 1978 può con­si­de­rarsi momento di svolta. Momento in cui all’inversione del rap­porto tra rifor­mi­smo e neo­ri­for­mi­smo cor­ri­sponde anche l’inversione del rap­porto tra rifles­sione cul­tu­rale e scelte politiche.
Certo con­si­de­rare un arti­colo pub­bli­cato su un roto­calco set­ti­ma­nale come ele­mento perio­diz­zante, sia pure di breve arco tem­po­rale, può sem­brare un’indicazione che tiene scar­sa­mente conto delle pro­por­zioni tra i fatti. Se ci limi­tiamo alla cosa in sé, cioè alla qua­lità dello scritto in que­stione, la spro­por­zione è dav­vero evi­dente. Solo l’iperbole ita­liana (e l’atmosfera di ser­vi­li­smo nei con­fronti dei potenti in atto od in fieri) può defi­nire come sag­gio qual­che pagi­netta a for­tis­sima impronta ideo­lo­gica e com­ple­ta­mente disin­for­mata sui risul­tati rag­giunti dalla sto­rio­gra­fia più aggior­nata a pro­po­sito dell’oggetto su cui si intende get­tare una luce, anche in que­sto caso, nuova. Pro­prio il distacco tra l’irrilevanza della cosa in sé ed i rile­van­tis­simi effetti politico-mediatici è indi­ca­tivo e for­te­mente anti­ci­pa­tore di una ten­denza che ha per­vaso un’intera fase poli­tica ed è diven­tata uno dei para­me­tri carat­te­riz­zanti il momento attuale fino al mani­fe­sto Renzi.
Nel caso spe­ci­fico la que­stione riguarda la cosciente e pro­gram­mata rot­tura tra l’agire poli­tico e qual­siasi rifles­sione ana­li­tica che non sia stru­men­tale e dun­que del tutto subal­terna alla sfera dell’attivismo. La pro­gram­mata rot­tura con qual­siasi forma di pen­siero «cri­tico»; con qual­siasi forma di pen­siero strut­tu­rato mediante ele­menti di coe­renza; con qual­siasi forma di pen­siero che affondi le radici nell’analisi economico-sociale e se ne serva all’interno di un pro­getto di muta­mento della società. Per que­sto è del tutto vano, anzi fuori luogo, il ten­ta­tivo di cer­care le linee di svol­gi­mento dell’ultimo tren­ten­nio di vicenda ita­liana nel «pen­siero» di Craxi, o di Ber­lu­sconi o di Renzi. Non certo per­ché i Craxi, i Ber­lu­sconi e i Renzi siano stati o siano mar­gi­nali in quella vicenda. Ne sono stati e ne sono, invece, cen­trali, ma non per il loro «pen­siero», bensì per la capa­cità di gio­care fino in fondo il ruolo di boss del mer­cato politico.
E dun­que la cri­tica pun­tuale, argo­men­tata tra­mite stru­menti con­cet­tuali rigo­rosi, in tale con­te­sto non pro­duce effetti poli­ti­ca­mente rile­vanti. Ciò non signi­fica che non debba essere con­ti­nua­mente avan­zata, pun­ti­glio­sa­mente avan­zata. Nel pro­cesso di rico­stru­zione di una poli­tica degna del nome è comun­que un momento necessario.
La cial­tro­ne­ria cul­tu­rale del potere poli­tico è sup­por­tata poi, nella pub­bli­ci­stica, da mani­poli di cori­fei felici di vedere così ampia­mente con­di­visa la loro mise­ria intel­let­tuale. Così il Cor­riere della sera (11 dicem­bre 2013) può esul­tare per­ché nel pan­theon di Renzi non ci sono più i «san­tini» (Gram­sci, Marx….), cioè gli espo­nenti di una «cul­tura volu­mi­nosa», bensì la «triade Mary Poppins-Righeira-Fosbury».
Ecco, pro­via­moci allora a com­pren­dere i mec­ca­ni­smi pro­fondi della crisi in atto, di una crisi strut­tu­rale e siste­mica, della col­lo­ca­zione dell’Italia in que­sta crisi, facendo a meno della «cul­tura volu­mi­nosa» e ricor­rendo alla stru­men­ta­zione ana­li­tica della «triade Mary Poppins-Righeira-Fosbury».
I risul­tati sono la non poli­tica, la poli­tica che rime­scola le posi­zioni di ver­tice come le cor­renti marine di super­fi­cie ricom­pon­gono l’insieme dei rifiuti che gal­leg­giano sull’acqua. Leo­nardo Scia­scia fa dire ad un suo per­so­nag­gio: chi non ha capito che la poli­tica è solo per­so­nale inte­resse non ha capito il mondo. Ebbene la «cul­tura volu­mi­nosa» que­sto pro­prio non lo vuole capire.

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