Dopo aver vinto lo spettro della bancarotta, il governo di centrodestra del Portogallo vince anche la sfida delle urne ma senza raggiungere la maggioranza assoluta.La coalizione Portugal a Frente del premier uscente Pedro Passos Coelho (Partito socialdemocratico e Cds) ha vinto le legislative, arrivando ad un passo dall’agognata maggioranza assoluta in Parlamento.
Un successo impensabile, fino a pochi mesi fa con il 36,9% dei voti contro il 32,4% del Partito socialista all’opposizione, guidato dall’ex sindaco di Lisbona António Costa che, nonostante la sconfitta, non si dimetterà e ha annunciato che non farà coalizioni con i vincitori. Dietro ai due grandi partiti tradizionali, il Bloco de Esquerda, sostenuto dagli spagnoli di Podemos e dai greci di Syriza, ottiene il 10,2% e supera a sorpresa la coalizione di comunisti e verdi (8,2%), ma non sfonda. Da record l’astensionismo: 43,08%.
Ieri 9,6 milioni di elettori erano chiamati a rinnovare i 230 deputati del Parlamento. La coalizione del premier Coelho non riesce però a conquistare la soglia dei 116 seggi, ovvero la maggioranza assoluta, sconfiggendo lo spettro dell’ingovernabilità. L’esito più probabile sarà quindi la formazione di un governo minoritario che costringerà Coelho, 51 anni, a stringere nuove e forse fragili intese in Parlamento.
Ieri 9,6 milioni di elettori erano chiamati a rinnovare i 230 deputati del Parlamento. La coalizione del premier Coelho non riesce però a conquistare la soglia dei 116 seggi, ovvero la maggioranza assoluta, sconfiggendo lo spettro dell’ingovernabilità. L’esito più probabile sarà quindi la formazione di un governo minoritario che costringerà Coelho, 51 anni, a stringere nuove e forse fragili intese in Parlamento.
È stata una battaglia giocata tutta sui numeri dell’economia. Il governo di Coelho, insidiatosi nel 2011, il primo a concludere il mandato dalla fine della quarantennale dittatura, nel 1974, ha messo sul tavolo il sudato successo delle sue politiche d’austerità e tagli alla spesa pubblica. Gli ultimi anni di lacrime e rigore hanno lasciato in eredità un 20% della popolazione attiva condannata al salario minimo (505 euro al mese) ma hanno anche allontanato il rischio-bancarotta in cui era piombato il Paese durante la Grande crisi europea. «Questo governo ha dimostrato di poter rimettere sul binario giusto il Paese, non credo che i portoghesi voteranno la lista dei desideri o delle promesse», ha ripetuto come un mantra il ministro dell’Economia Pires de Lima, del partito Cds.
Il socialista Costa, dal canto suo, non ha mai messo in discussione la riduzione del debito pubblico né l’appartenenza del Portogallo all’eurozona - a differenza del Partito comunista e del Bloco de Esquerda, il che ha escluso in partenza un governo di coalizione a sinistra - ma ha ribadito il suo «no» a un’alleanza strutturale con il centrodestra.
Un anno e mezzo è trascorso dalla fine del programma d’emergenza varato dopo il «bailout» del 2011 per volere della troika (Unione Europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) che ha fatto lievitare tasse, disoccupazione e recessione. E finalmente, il peggio sembra ormai alle spalle. L’economia è tornata a crescere, più della media europea - +1,5% nel primo semestre dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014 - l’occupazione è in ripresa e le obbligazioni di Stato non sono più i paria dei mercati internazionali (i bond a 10 anni hanno oggi un tasso del 2,3% contro il 18% di tre anni fa).
I dati macroeconomici con segno positivo sono controbilanciati da un debito ancora molto ingombrante - secondo solo a quello di Grecia e Italia - che s’aggira intorno al 128% del Pil. E devono necessariamente fare i conti con una popolazione che è stanca di tirare la cinghia, dopo il taglio di salari e pensioni, con un’Iva al 23% anche su beni essenziali come i farmaci o il popolarissimo pane e chorizo. Un dato dà il segno del cansanço , della stanchezza, crescente e della voglia di migliori opportunità di vita: negli ultimi quattro anni il 5% della popolazione è emigrata, 200.000 negli ultimi due anni. Soprattutto giovani.
Eppure qui i «partiti nuovi», che nella vicina Spagna hanno rivoluzionato l’arena politica, sembrano destinati a non sfondare e a restare marginali rispetto ai due partiti che si alternano al potere dal 1981: socialdemocratici di centrodestra e socialisti di sinistra. Il Bloco de Esquerda, «fratello» di Podemos e Syriza, è riuscito a intaccare lo zoccolo duro dell’unico Partito comunista ancora solido in Europa, ma non ha attirato il voto dei tanti «disillusi» che hanno disertato ancora una volta le urne.
Il socialista Costa, dal canto suo, non ha mai messo in discussione la riduzione del debito pubblico né l’appartenenza del Portogallo all’eurozona - a differenza del Partito comunista e del Bloco de Esquerda, il che ha escluso in partenza un governo di coalizione a sinistra - ma ha ribadito il suo «no» a un’alleanza strutturale con il centrodestra.
Un anno e mezzo è trascorso dalla fine del programma d’emergenza varato dopo il «bailout» del 2011 per volere della troika (Unione Europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) che ha fatto lievitare tasse, disoccupazione e recessione. E finalmente, il peggio sembra ormai alle spalle. L’economia è tornata a crescere, più della media europea - +1,5% nel primo semestre dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014 - l’occupazione è in ripresa e le obbligazioni di Stato non sono più i paria dei mercati internazionali (i bond a 10 anni hanno oggi un tasso del 2,3% contro il 18% di tre anni fa).
I dati macroeconomici con segno positivo sono controbilanciati da un debito ancora molto ingombrante - secondo solo a quello di Grecia e Italia - che s’aggira intorno al 128% del Pil. E devono necessariamente fare i conti con una popolazione che è stanca di tirare la cinghia, dopo il taglio di salari e pensioni, con un’Iva al 23% anche su beni essenziali come i farmaci o il popolarissimo pane e chorizo. Un dato dà il segno del cansanço , della stanchezza, crescente e della voglia di migliori opportunità di vita: negli ultimi quattro anni il 5% della popolazione è emigrata, 200.000 negli ultimi due anni. Soprattutto giovani.
Eppure qui i «partiti nuovi», che nella vicina Spagna hanno rivoluzionato l’arena politica, sembrano destinati a non sfondare e a restare marginali rispetto ai due partiti che si alternano al potere dal 1981: socialdemocratici di centrodestra e socialisti di sinistra. Il Bloco de Esquerda, «fratello» di Podemos e Syriza, è riuscito a intaccare lo zoccolo duro dell’unico Partito comunista ancora solido in Europa, ma non ha attirato il voto dei tanti «disillusi» che hanno disertato ancora una volta le urne.
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