Accade spesso che la prima notizia importante del mattino sia un arresto, una retata o una nutrita serie di perquisizioni «in diverse città d’Italia». Ieri si è trattato di Rete ferroviaria italiana, qualche giorno prima dell’Anas, la settimana addietro di un grande Comune. I primi commenti che cominciano quasi subito a circolare in Rete recano «vergogna» come parola chiave e sono solo l’inizio di un fiume di improperi, recriminazioni, e insulti che ci accompagna fino ai talk show della prima serata.
Il motivo conduttore della corrente di indignazione è che siamo un Paese marcio, destinato a scomparire dalla mappa geo-politica del globo e che siamo riusciti a collezionare i peggiori amministratori pubblici del pianeta, i più corrotti funzionari dello Stato e gli imprenditori più infingardi che ci siano in circolazione nell’orbe terracqueo. Un’affermazione di questo tipo se fatta in pubblico garantisce quasi sempre applausi a manetta e i più bravi nello scandirla arrivano a conquistarsi una standing ovation. A dar loro ragione uscirà di sicuro nei giorni successivi una ricerca di un organismo internazionale che attesterà come il nostro Paese sia ormai al quattrocentesimo posto delle graduatorie mondiali della trasparenza appena sopra la Colombia dei narcos.
Ma è davvero così? Siamo un Paese che ha perso totalmente la virtù e nel quale il malaffare avanza incontrastato? Per rispondere a domande così impegnative conviene procedere per approssimazioni successive. La prima riguarda il legame tra ampiezza della presenza pubblica in economia e diffusione della corruzione. Se a Roma saccheggiare l’Atac è diventato l’obiettivo numero uno del partito della mazzetta, è anche perché si è ridotto il perimetro dell’economia pubblica a disposizione delle incursioni affaristiche. Le privatizzazioni non saranno state uno straordinario esempio di politica industriale ma hanno comunque delimitato la presenza dello Stato e statisticamente ridotto le occasioni di corruzione. È chiaro che si tratta di una considerazione di carattere quantitativo, non sosterrei mai che basta privatizzare per eliminare il malaffare, mi limito a dire che è una condizione utile e che quando si verifica obbliga i faccendieri a ridurre il raggio delle proprie ambizioni. Se deve rubare su mense per i migranti e forestali siciliani il partito della corruzione registra un arretramento e non certo un’avanzata.
Un ragionamento analogo si può fare in merito al valore aggiunto sprigionato dalla società civile italiana. Tradizionalmente grazie ai corpi intermedi il nostro tessuto sociale ha svolto un ruolo di coesione e di solidarietà che spesso ha surrogato l’assenza di politiche pubbliche efficaci. Abbiamo un terzo settore più ampio di altri Paesi anche perché l’azione dal basso ha fatto da surrogato alla carenza di indirizzi top down. Se fino al Novecento la società civile ha garantito questo tipo di legature con i processi di internazionalizzazione il suo ruolo è cambiato. Ha saputo in qualche maniera intercettare il cambio di paradigma e ha preso come riferimento la media-di-quello-chefanno- gli-altri-europei. Questo processo ha generato una crescita diffusa di competenze sottoposte a concorrenza internazionale e quindi vere.
La ragione forte della differenza tra Milano e Roma, evocata da Raffaele Cantone, sta proprio nella diversa qualità delle rispettive società civili, nella loro differente esposizione al confronto (quantomeno) continentale. So bene che anche in questo caso tutto ciò non garantisce la morte della mazzetta ma ne riduce solo statisticamente — uso ancora questo avverbio — la frequenza.
C’è quindi tanto da monitorare e studiare sull’evoluzione delle nostre società anche per capire come cambia la corruzione e questo compito tira inevitabilmente in ballo giornalisti e magistrati. Troppo spesso anche loro vittime della pigrizia.
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