C’è da augurarsi che la discussione sulla maternità surrogata, aperta dal documento di alcune femministe contro la pratica dell’«utero in affitto», non si chiuda tanto rapidamente. Infatti il tema, al quale il Corriere ha dato ampio spazio nei giorni scorsi, va ben oltre la questione, pur rilevantissima, della liceità o meno della pratica della gestazione per altri (generalmente dietro un compenso in denaro), vietata nella maggior parte dei Paesi europei ma ammessa in Usa, India e vari Stati dell’ex Urss.
In questo senso, la discussione non può essere ridotta a una mera faccenda tecnica, cioè ai mezzi per reagire all’infertilità in aumento, come sembra fare un documento della Fondazione Umberto Veronesi, che si è pronunciato per un sì senza riserve a favore della maternità surrogata. Non può esservi ridotta per il semplice fatto che ciò che è implicato in questo caso è qualcosa di sovraordinato rispetto alla pratica medica. È la domanda — antica, ma resa nuova e urgente dalle enormi potenzialità della scienza contemporanea — circa l’esistenza o meno di limiti che una società ritenga di dover porre quando si tratta di attività che implichino la vita, la cura, la morte.
È l’enorme sviluppo della scienza, e in particolare delle biotecnologie, che ci pone ormai di fronte a questioni del genere, rispetto alle quali siamo poco attrezzati. Un tempo infatti — sia detto senza alcuna nostalgia — tutto era o appariva più semplice. In una società non ancora secolarizzata, com’era quella italiana fino a qualche decennio fa, il confine tra ciò che era lecito e ciò che non lo era coincideva in larga misura con i dettami della religione cattolica. Questo era vero per i cattolici praticanti ma sostanzialmente anche per la sinistra comunista. Rispetto a quella situazione tutto è cambiato da tempo. Il mainstream culturale è caratterizzato da almeno tre decenni da quella che si configura come una vera e propria ideologia dei nuovi diritti; dall’idea, cioè, che l’obiettivo cui le nostre società devono puntare — dopo l’acquisizione dei diritti civili e politici, poi di quelli sociali — sia l’estensione dei diritti che attengono all’identità individuale, anzitutto di genere, e alle scelte personali. Il tema dell’eutanasia come quello dei matrimoni gay stanno evidentemente dentro questa grande categoria di nuovi diritti.
Il punto è che l’ideologia dei nuovi diritti, incentrata com’è sull’idea di una sempre maggiore libertà di scelta dell’individuo, è poco interessata ma anche poco attrezzata a confrontarsi con l’idea del limite, che viene spesso considerato come qualcosa di reazionario in sé e da rigettare. Ciò che è appunto particolarmente significativo nel dibattito in corso sulla maternità surrogata è che i dubbi, anzi la vera e propria contrarietà, siano esplosi proprio all’interno di quelle posizioni progressiste e di sinistra più tradizionalmente sensibili al tema dei nuovi diritti.
Qualche mese fa c’è stata infatti la condanna formulata su Libération da un gruppo di femministe francesi, tra cui la filosofa di sinistra Sylviane Agacinski; più di recente l’analogo documento di femministe italiane (firmato anche da intellettuali come Beppe Vacca); infine il rapporto sui diritti umani del Parlamento europeo secondo il quale la maternità surrogata «compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce». Nello stesso testo, l’Assemblea di Strasburgo invitava a realizzare al più presto una tutela giuridica, unione registrata o matrimonio, per le coppie gay; ciò che indica appunto come la condanna dell’«utero in affitto» provenga da ambienti impegnati sul piano della rivendicazione dei nuovi diritti. Ma che pensano anche, come ha scritto sul Corriere la filosofa femminista Luisa Muraro, che «non tutto è disponibile per l’essere umano». Cioè che, nel caso specifico, non può esistere alcun diritto ad avere un figlio a tutti i costi, anche a quello di ridurre a merce il corpo di un’altra donna; una donna usata come «un forno», ha accusato Cristina Comencini con un’immagine molto dura ma che bene rende l’idea di come non si possa ignorare il rapporto profondo che si costruisce tra un bambino e la donna che lo ospita nel suo corpo. Quali che siano gli esiti del dibattito sull’«utero in affitto», lo sviluppo scientifico ci obbligherà sempre più a fare i conti con questo tipo di problemi. Che sono nuovi, ma non assolutamente inediti: già Immanuel Kant, che una cosa come la maternità surrogata non poteva nemmeno immaginarla, invitava ad agire «in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine mai come mezzo».
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