Il nuovo concorso per aspiranti professori nelle scuole secondarie, che verrà bandito in gennaio dal Ministero, prevede per tutti i candidati un colloquio in lingua straniera. Se, come viene anticipato, si richiederà la conoscenza dell’inglese almeno al livello B2, vale la pena porsi alcune domande.
Primo, fermo restando che l’inglese è la lingua più parlata in Europa, siamo sicuri che a Milano o a Palermo un insegnante di storia, di italiano, di musica o di matematica capace di ordinare con scioltezza una birra scura a Soho sia un insegnante migliore di un altro che nella stessa situazione mostri qualche impaccio?
Secondo: siamo sicuri che un professore che parla «fluently» la lingua di Shakespeare sia per definizione migliore di un collega che se la cava bene «solo» con il tedesco o con il francese o con lo spagnolo? Terzo: perché il B2? Siamo certi che un prof di italiano che raggiunga un inglese B2 sia più preparato e più affascinante di un collega anglisticamente inferiore?
E soprattutto, quarto: in ambito linguistico ci sono delle priorità «fisiologiche». Possiamo dare per scontata la piena competenza dei futuri docenti nella lingua madre, l’unica vera competenza indispensabile all’insegnamento di qualunque materia scolastica, educazione fisica compresa? Non sarei così ottimista. Dunque, non sarebbe molto più utile verificare la qualità dell’italiano, scritto e orale, di cui dispongono gli insegnanti? Magari progettando una seria politica scolastica di formazione linguistica: perché a guardarsi (e ad ascoltarsi) intorno, la vera macroscopica lacuna, ben prima dell’anglofonia, è l’espressione «materna», l’argomentazione, la capacità di parlare e di scrivere in italiano non solo correttamente ma con tutte le sottigliezze necessarie in una società complessa.
Gli immigrati più consapevoli puntano sull’apprendimento della lingua,vanno a scuola e imparano spesso, da stranieri, un italiano migliore (o «più migliore», vero ministra?) del nostro. E noi, intanto, tutti a inseguire l’inglese.
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