Lo dichiaro subito a scanso di equivoci: non siamo contenti di come sta andando l’esperimento di alternanza studio-lavoro. Avevamo coltivato tutt’altra idea, che si potesse costruire un «ponte» tra gli studenti e il lavoro, un collegamento che permettesse di generare percorsi virtuosi di apprendimento e conoscenza.
Non sempre è stato così, si tratta al più presto di ripartire dalle pratiche positive che pure ci sono e costruire qualcosa di diverso. Detto questo però la performance (molto teatrale) degli studenti in occasione degli Stati generali dell’alternanza suona inevitabilmente come un’offesa rivolta al lavoro operaio. Non ci sono schiavi nelle fabbriche italiane dove la rappresentanza sindacale eletta dal basso garantisce da sempre i diritti, dove la contrattazione si è ampliata al welfare familiare, dove per effetto delle trasformazioni 4.0 le tute blu sono chiamate a nuovi compiti e nuove responsabilità. Anche in situazioni-limite, come Amazon, dove proprio in questi giorni si discute dei ritmi di lavoro, il retroterra di una forte tradizione sindacale ha portato all’organizzazione di uno sciopero e ha dato ampia visibilità a quel conflitto.
La vera schiavitù è un’altra e purtroppo è facile rintracciarla nella disoccupazione giovanile e in quella particolare e drammatica figura sociale che ci siamo abituati a chiamare Neet, un ragazzo o una ragazza che non studia e non lavora. Magari riuscissimo a dar loro una tuta: blu, rossa o bianca che sia.
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