mercoledì 6 dicembre 2017

M. MANTELLO, Cos’è l’etica laica?, DUEMILARAGIONI.MYBLOG, 14 luglio 2008

L’etica si occupa dell’agire umano. E’ scienza dell’agire. E come tale permette
di giudicare la fondatezza morale delle azioni, perché dà i presupposti formali
dell’agire bene. Non è quindi un elenco di norme, ma riflessione sulle
condizioni e possibilità che garantiscono l’esercizio della libertà di scelta.
Ogni azione implica una intenzionalità in vista di un risultato che si vuole
conseguire e della volontà per conseguirlo. 


E’ questa volontà che permette la
realizzazione concreta dell’azione trasformando un’ipotesi di azione in atto
reale. Ma ciò che rende possibile tutto questo è la nostra libertà di scelta.
Possiamo dire allora, che l’azione è la realizzazione, mediante la volontà,
della individuale libertà di scelta. Una libertà che è indagine razionale sulle
possibilità e modalità di scegliere e dimensione pratica di ogni scelta. La
nascita è un caso. L’unica cosa certa è che dobbiamo morire. In mezzo c’è la
Vita, che si snoda in un tempo storico. Che si articola in spazi e tempi finiti. E’
proprio questa consapevolezza della finitezza a dare un ruolo centrale al mio
agire nella ineludibile responsabilità del mio esser-ci: particolare, singolare,
storico. Dove attraverso le mie scelte mi autodetermino, ma incido anche
sugli altri e sulla società.
Poiché la libertà di scelta è un esercizio non certo comodo, proprio per la
responsabilità che implica, c’è chi spera forse di potersi sottrarre a questo
peso ponendosi sotto la cappa consolatoria di comportamenti
aprioristicamente stabiliti da altri. Modelli tanto più assoluti quanto più
rassicuranti nella speranza di essere assolti dalla libertà di scelta. Di essere
sottratti dalla responsabilità dell’esser-ci, del divenire -mondo. Tuttavia, chi si
rifugia in questi assoluti non è affatto salvato dalla libertà di scelta. Chi
abbraccia pacchetti morali dati una volta e per sempre, sceglie di adeguarsi
ad una precettistica. E sua è la responsabilità di farsi portatore di modelli
pregiudiziali, di idee blindate che esigono conformismo morale per sé e per
gli altri. Un mondo di replicanti dell’Assoluto essere, dove ognuno prima di
potersi realizzare in quanto individuo, dovrebbe prioritariamente omologarsi
al modello già tutto descritto, prescritto, circoscritto. Ad un’idea di uomo, di
donna presupposta. Un mondo di cloni. Dove l’individuo, espropriato dei
possibili sperimentabili esistenziali acquieta se stesso magari sperando in
disegni provvidenziali, proiettati finanche in immaginifici cieli. Un mondo
dominato dal narcotico di un pensiero unico e di un’univoca morale. Un
mondo dove ognuno, in una sorta di automatismo psichico, risponda come il
cane di Pavlov al suono della campana che ha stabilito per lui cosa è bene e
cosa è male. Una volta per tutte ed universalmente. Per fede.
Tutto il contrario dell’etica laica, che fonda la scelta buona proprio
sull’esercizio di dubitare, discutere, argomentare, verificare. L’azione non è
un assoluto. Ma un fatto. E il fatto è descrivibile, analizzabile, dimostrabile per
la bontà dei risultati che determina per sé e per gli altri. Per il
confessionalismo morale questo è impossibile, perché la bontà dell’azione è
ancorata nel trascendente, nella rivelazione. In una interconnessione
tautologica di idee supposte: Dio-Anima-Mondo, che pretendono di
ingabbiare ogni azione-fatto in un assoluto-morale. Così, nella riproposizione
agostiniano-tomista dell’identità tra legge divina e legge umana, riemerge
sempre una inquietante voglia di ordine teocratico. Quella che fa dire a papa
Wojtyla: “La legge stabilita dall’uomo, dai parlamenti… non può essere in
contraddizione con la legge di natura, cioè in definitiva con l’eterna legge di
Dio” (Memoria e identità, 2005). Quella che fa pretendere a papa Ratzinger di
esigere dallo Stato leggi cattoliche, in quanto “Norme inderogabili e cogenti
che non dipendono dalla volontà del legislatore… dallo Stato… norme che
precedono qualsiasi legge umana: come tali non ammettono interventi di
deroga da parte di nessuno” (Convegno sulla legge morale naturale, feb.
2007).
Ma se l’Etica è quella particolare scienza (téchne – tecnh come la chiamavano
i greci), d’indagine critica e di verifica empirico-razionale su ciò che mi fa
giudicare un’azione buona, nell’immanenza del progetto esistenziale, l’etica è
arte della gestione responsabile della libertà di scelta nella autonomia
morale.
Sulla differenza tra azione autonoma ed azione eteronoma si gioca la
dicotomia tra etica laica e confessionalismo. Per il laico, l’azione non ha la
sua giustificazione etica, la sua garanzia in un ordine, un’abitudine e neppure
in un capriccio. La garanzia della bontà dell’azione, ciò che la rende
eticamente fondata, ciò che ne garantisce, potremmo dire l’epistemologia, è
la scelta dell’azione per il fine che ha in se stessa. E’ questo che fa buona la
scelta. Ad esempio: se scelgo di aiutare una persona in difficoltà, la mia
azione non può avere scopo altro, fine altro, al di fuori del fatto che ritengo
positivo portare aiuto. Lì ed ora. Del tutto differente, se quell’aiuto è dato in
funzione di un premio, o per evitare un castigo. In questo caso il fine è
esterno all’azione. E’ infatti il premio che ne riceverò, a determinare la mia
volontà di agire. E se per avere quel premio dovessi fare l’esatto contrario, lo
farei. E’ questo il regno dell’eteronomia morale, che proprio nell’uso
strumentale dell’azione, ne vanifica la bontà, perché la priva del valore della
scelta per il suo valore di senso intrinseco. Ma non solo! Agendo così, uso
strumentalmente anche me stesso, assoggettando la mia scelta ad altro/altri.
Ad un potere esterno. E’ proprio questa eteronomia, a giustificare defezione
morale e fuga dalla responsabilità.
La morale laica è sgombra dalle presupposizioni degli assoluti, quella
confessionale fa degli assoluti il punto di partenza e quello di arrivo. La
morale laica non è un sistema di valori contrapposto ad un altro, ma è la
dimensione della libertà, ovvero il regno della libertà nella reciprocità delle
libertà. Quella confessionale è il regno tautologico dell’eterno ritorno
all’eguale. Essere che tarpa ed ingabbia ogni esistente, e che nell’eteronomia
falsifica e strumentalizza anche ogni relazione intersoggetiva. Ogni alterità è
preventivamente eliminata, fagocitata, schiacciata in un totalitario Io assoluto.
Al contrario, se si assume come strategia etica il principio laico
dell’ermeneutica della verificabilità, è chiaro che ogni segmento della praxis
obbliga a continue rivisitazioni nell’io, e alla comunicazione dialogica con
ciascun altro io. Da un tale esercizio etico tutti avrebbero da guadagnare,
proprio per le possibilità di garantire libertarie prospettive di asimmetriche
pluralità. Solo così l’egoità si apre infatti alla visione degli esistenti possibili.
Lo scontro allora non è tra credenti, diversamente credenti o quant’altro. Lo
scontro, semmai è tra chi accetta di discutere e verificare, argomentando la
bontà dei suoi assunti, e tra chi questo rifiuta. Perché rifiuta quella che Hanna
Arent chiamava: “la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè
del vivere come distinto ed unico essere tra uguali” (Vita Activa).
Allora chiediamo: La garanzia democratica può stare nel declinare la libertà
in termini di appartenenza a gruppi chiusi, che vogliono trasformare la
democrazia in dittatura della loro maggioranza? O nel declinare la libertà
nell’appartenenza civica? Se la scelta è per la seconda ipotesi, non sarebbe
più saggio che lo Stato si preoccupasse di garantire ogni individuo dalle
pretese omologanti dei confessionalismi e dal loro totalitarismo delle
coscienze? “La giustizia – scriveva Epicuro – non è qualcosa che sia di per
se stessa: essa è solo nei rapporti reciproci, dovunque e quante volte esista
un patto di non arrecare e di non ricevere danno”(Massime capitali, XXXIII).
Solo in questo senso, ognuno è salvato dall’ingerenza dell’altro (compresa la
pressione del gruppo familiare e sociale) e da ogni fanatismo morale. E’
nell’etica laica, allora, che lo Stato deve garantire il diritto di libertà di
religione e dalla religione. Ad ognuno secondo i suoi bisogni morali! Allora
ecco che l’etica laica, che pretende che i valori vengano giudicati al di fuori
dall’impenetrabilità dell’Assoluto Essere, può far paura solo ai dogmatici che
non accettano che i principi morali possano essere soggetti a variabili, in
relazione alle circostanze oggettive, storiche, in cui si pensa ed agisce. Non
accettano che individui, famiglie, società sono il risultato di complesse
interrelazioni causali, che si connotano, strutturano e cambiano nel tempo.
Ma i paladini del confessionalismo morale, forse, non vogliono accettare
soprattutto, che sempre più individui possano prendere coscienza, che
attraverso gli Assoluti morali si perpetuano i rapporti di potere dominanti!
Etica laica allora significa entrare nel disincanto che non ci sono valori e leggi
eterne, ma neppure stereotipie di ruoli, funzionali solo ai padroni dell’anima.
Relativismo e secolarizzazione, non sono allora il “demoniaco” da rifuggire,
ma la constatazione che proprio dalla liberazione degli assoluti si può
produrre una società più giusta. Dove finalmente, potremmo riappropriarci del
significato originario della parola ethos, come “posto del vivere concreto”, per
essere creatori di norme che garantiscano a tutta la comunità migliori
possibilità di vivere serenamente. La parola comunità, ha al suo interno una
preziosissima radice: “munus”, che significa dono, ma anche obbligo. E
questo dono non è il sacrificio del proprio sé, ma il dono reciproco nel
solidarismo delle libertà. Nella consapevolezza dell’etica laica che: “non
possiamo essere costretti da altri a nulla più di ciò a cui possiamo
reciprocamente costringerli” (Kant, Metafisica dei costumi). Allora, se da una
parte, possiamo e dobbiamo dialogare per convincere che solo su questo
terreno, che è quello della laicità dello Stato, si può edificare la civile e
pacifica convivenza democratica, dall’altra, dobbiamo avere il coraggio
dell’intransigenza contro la pretesa totalitaria di chi vorrebbe far coincidere i
diritti umani con i doveri confessionali. Il nemico non è chi professa una fede,
ma chi vuole che la propria fede divenga legge per tutti. “Il fanatico -scrive
Amos Oz- è un punto esclamativo che cammina. Non ha una vita privata.
Appare come un’altruista, visto che si interessa soprattutto agli altri. Ma non lo
fa per capire l’altro, lo fa solo per costringere l’altro a essere ciò che lui pensa
sia giusto essere. Per costui nessuna forma di mediazione è
possibile.” Compito dello Stato è allora salvarci dall’ingerenza dei fanatici,
proprio attraverso le garanzie dell’etica laica.

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