Tutta la discussione sulla fine delle
restrizioni e sul “ritorno alla normalità” ruota esclusivamente intorno a motivi
economici. Di fatto il problema non è tanto la famosa mancanza di libertà, pure
evocata nei giorni scorsi. Il problema vero è l’economia che non riparte. Per cui scopriamo, finalmente, quello che
tutti sapevano. Il costringere a restare in casa non è la fine dei diritti
umani. Restarsene a casa vuol dire, ma non per tutti, non lavorare. Dico “non
per tutti” perché, nel frattempo, diverse categorie rimaste a casa hanno potuto
sperimentare il famoso “smart working” che qualche anno fa si chiamava “tele-lavoro”.
Per cui c’è chi produce beni immateriali (insegnamento, attività finanziarie, pagamenti,
ecc.) e chi continua a produrre beni
molto materiali (nonostante l’avvento della famose, ma mai viste, stampanti
3D). Difficile immaginarsi di poter produrre beni alimentari, auto, oppure effettuare
una seduta odontoiatrica via Skype. Per non parlare della produzione di acciaio
e della costruzione di ponti. In effetti, in alcuni di questi casi le attività
non si sono mai fermate (le industrie alimentari, i corrieri che trasportano
gli alimenti nei supermercati, gli stessi supermercati hanno continuato a
lavorare nelle sedi tradizionali).
Ora l’immancabile università Bocconi ha
monetizzato i costi, in termini di perdite ovviamente, del blocco di quelle
attività che hanno bisogno della prossimità,
proprio il contrario della distanza sociale: “Le misure di distanziamento sociale bruciano - secondo uno
studio della Bocconi - il 6,6% del pil. Alberghi, stabilimenti balneari, aerei,
parchi divertimenti e ristoranti sono i settori che rischiano di pagare il
prezzo più salato ai provvedimenti "anti-droplet" perché ripartiranno
più tardi degli altri.” (E. Livini, Quanto costa un metro di distanza? Il conto
(salato) del distanziamento sociale,Repubblica, 9 aprile 2020)
L’esperto che accompagna ogni
giorno il capo della Protezione civile per comunicare i numeri aggiornati
dell’epidemia, vedendo molte donne in platea, ha detto che l’attività che
sarebbe più pericoloso riaprire è quella della parrucchiera.
Così, per un curioso paradosso, proprio quelle attività fondate sulla
promiscuità sociale, causa concomitante ed evidente di quello che stiamo
subendo, pagherebbero il pegno di quanto (involontariamente?) hanno generato.
Ma nessuno lo dice. E se il virus ci stesse insegnando (eterogenesi dei fini)
esattamente questo, che dovremmo reinventare altre modalità di vita?
Quando il terrorismo islamico
colpì la metropolitana di Londra, l’allora primo ministro Tony Blair disse che
quell’attentato (come, in generale, le minacce del fondamentalismo) non avrebbe
certo messo in discussione lo stile di vita degli inglesi (cioè degli
occidentali tout court). Adesso un virus ci costringe a riformulare la stessa
domanda, suggerendoci che quello che tutti chiamano “normalità” proprio normale
non lo era e non lo è.
Un imprenditore intervistato ha definito la situazione che si sta
vivendo con la parola “sospensione”. Il termine è suggestivo: la sospensione
implica un’attesa, un bloccarsi del tempo nel suo scorrere scontato e
prevedibile. Sospensione come “suspense”. Nel cinema, e non
solo, la suspense implica che il protagonista, e noi con lui, si trovi di
fronte ad una situazione di incertezza che genera ansia nell’attesa, però, che
qualcosa accada, si sveli e che la normalità riprenda il suo corso. Certo, la
sospensione potrebbe essere più pragmaticamente, semplicemente la ‘sospensione
delle attività’. Eppure credo che si stia insinuando nella sensibilità
collettiva qualche dubbio in più sulla tenuta dei modelli che hanno regolato la
nostra mentalità fino ad oggi.
Le sfide che quello che chiamiamo impropriamente ‘natura’ ci sta
lanciando da qualche tempo e sempre con maggiore determinazione dovranno farci
ricredere su numerose convinzioni coltivate e sedimentatesi troppo ingenuamente nel tempo sull'onda di quella magica parola che è stata "progresso".
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