domenica 19 aprile 2020

POLITICA E VIOLENZA. STATUTO DEI LAVORATORI E BOMBE FASCISTE. G. CALDIRON, Il «doppio» perverso del cambiamento, IL MANIFESTO, 19 aprile 2020

«La mattina del 12 dicembre 1969 un ramo del Parlamento, il Senato, approvò la legge di “Tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”, ovvero lo Statuto dei lavoratori, in larga parte ispirato alla forma e al contenuto del contratto dei lavoratori metalmeccanici. Nel pomeriggio dello stesso giorno esplosero le bombe a Roma e Milano provocando feriti nella capitale e la strage di piazza Fontana».



È l’immagine del Giano bifronte che guarda allo stesso tempo verso il futuro e verso il passato quella che evoca Davide Conti per rileggere nel suo L’Italia di piazza Fontana (Einaudi, pp. 368, euro 32) il complesso intreccio di vicende nelle quali prese forma l’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano e il debutto dell’intera stagione della «strategia della tensione».
Quello di Conti, storico e consulente di diverse Procure impegnate nelle indagini sulle stragi, nonché autore di testi importanti sui crimini di guerra perpetrati dagli italiani nel secondo conflitto mondiale come sulla continuità di uomini e idee tra il regime mussoliniano e la Repubblica nata nel 1946, non è un libro sull’attentato del 12 dicembre, bensì un’indagine sul contesto nel quale avvenne, e sui motivi che resero possibile quello che, per dirla con Pierre Nora, si può definire come uno dei principali e drammatici «luoghi della memoria» della recente storia nazionale.
IL PAESE CHE FOTOGRAFA Conti, attraverso quella che lui stesso non esita a definire come una «polifonia di voci» che mettendo insieme fonti d’archivio, interventi parlamentari, materiale giudiziario e giornalistico, restituisce il giusto protagonismo a operai, studenti e braccianti accanto a industriali, politici e militari, è quello che porta ancora su di sé le cicatrici della «crescita critica» che ha accompagnato il boom economico, caratterizzato non solo da un profondo divario tra nord e sud, ma anche da un’urbanizzazione selvaggia e da un diffuso sistema coercitivo e di controllo indiscriminato all’interno delle fabbriche. Un Paese nel quale il modello di governo del centro-sinistra a guida democristiana si avvia ad una rapida crisi sotto la spinta delle trasformazioni sociali e produttive, pur conservando inalterata la conventio ad excludendum nei confronti del Pci, e dove continuano a pesare in modo determinante, anche se in forma inedita, le ricadute degli equilibri internazionali ereditati dalla Guerra Fredda.
Conti affronta tale contesto attraverso la definizione di quattro «aree di crisi» principali atte a descrivere lo stato complessivo dell’Italia del 12 dicembre: quella che riguarda i vertici della Forze armate, tra lotte di potere, tentazioni golpistiche e adesione al nuovo modello di «controinsorgenza» affermato dalla Nato; la linea di faglia che divide i vertici industriali, e segnatamente la Confindustria, dove emergono le figure dei «giovani leoni», delle rispettive «casate», Agnelli e Pirelli, mentre dentro l’«autunno caldo» si fa strada una nuova soggettività operaia e si realizza, non senza difficoltà, una rinnovata unità sindacale; la crisi dell’ordine pubblico di fronte al montare delle mobilitazioni prima studentesche e quindi operaie che mette in scena il confronto tra il «poliziotto massa» e l’«operaio massa»; e, infine, le spaccature che interesseranno i grandi partiti, dalla rottura tra i dorotei in casa Dc al ritorno della scissione socialdemocratica nel Psu, fino alla radiazione del gruppo del Manifesto dal Pci.
IN QUESTO SENSO, se l’attentato terroristico realizzato dal gruppo neofascista di Ordine Nuovo, all’interno di un ampio reticolo di complicità e connivenze, cercò di trasferire sul terreno «paramilitare» il conflitto sociale e politico che si era andato sviluppando in Italia nel corso del biennio 1968-69, l’intera strategia del terrore che si inaugurava allora, va intesa non soltanto «come reazione al “nuovo”, ma come declinazione contemporanea della persistenza dell’eredità del regime fascista negli apparati di forza dello Stato; negli uomini in esso collocati; nelle leggi che ne regolavano il funzionamento». Questo, «contestualmente tanto nei corpi sociali intermedi quanto nelle classi dirigenti, economiche più ancora che politiche».
UN INTRECCIO VELENOSO che annuncia una sfida che si proietta in avanti proprio mentre lascia emergere l’ombra di recenti fantasmi. In un testo che racconta in modo minuzioso tutto ciò che si mosse all’epoca «intorno» alla strage, si possono dare anche volti e nomi a tutto ciò. Un esempio tra i tanti. Quando il 3 luglio del 1969 i sindacati indicono uno sciopero generale e una manifestazione a Torino per chiedere il blocco degli affitti e la revoca degli sfratti – quella abitativa è una delle grandi questioni che vedono allargarsi le mobilitazioni dell’«autunno» anche fuori dai cancelli della Fiat -, una giornata che si concluderà con gli scontri di corso Traiano – la Valle Giulia del ’69 -, a dirigere le operazioni di polizia c’è il questore del capoluogo piemontese, Marcello Guida. Proprio quel Guida che, da ex membro della Divisione affari riservati e del confino di Ventotene durante il fascismo, passato indenne per l’epurazione del dopoguerra, in quegli anni si era già segnalato per le schedature di massa operate per conto della Fiat nei confronti di operai sindacalizzati e militanti della sinistra – oltre 354mila nomi – e che, di lì a qualche mese, assunta la direzione della Questura di Milano, avrebbe svolto un ruolo di primo piano nell’indirizzare da subito le indagini per la bomba di piazza Fontana verso «la pista anarchica» e nel coprire la morte di Giuseppe Pinelli, «suicidato» da una finestra della medesima centrale di polizia.
Nell’Italia dell’epoca, annota Conti, «desterà sensazione, il rifiuto dell’allora presidente della Camera Sandro Pertini, in visita ufficiale a Milano, di stringere la mano a Marcello Guida riconosciuto dal comandante partigiano socialista come il direttore del confino fascista di Ventotene».
ALLA CARICA RIBELLISTICA, più che rivoluzionaria, che muoveva alla fine degli anni Sessanta da condizioni materiali di estremo disagio e degrado, si replicò, diversamente che nel resto d’Europa dove ad analoghi milioni di ore di sciopero, manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni di università e scuole, si erano contrapposte leggi speciali, in Germania, o la «svolta» gollista in Francia, con una «risposta armata» che coinvolse organismi politici, settori militari italiani e atlantici, gruppi neofascisti a vocazione paramilitari: lo stragismo.
Con il risultato che se l’attentato di piazza Fontana rappresentò un atto di guerra compiuto in tempo di pace e contro civili inermi, che tentava di inserirsi dentro la crisi italiana prefigurandone uno sbocco autoritario, il sostegno, i depistaggi, l’impunità di cui avrebbero goduto i responsabili di quella strage come dell’intera strategia della tensione, peserà a lungo sulla vicende nazionali. «L’anomalia italiana che fino ad allora aveva mantenuto, pur tra forti tensioni e scosse interne al sistema istituzionale, una natura politica – conclude perciò Davide Conti -, venne trasferita nel 1969 dal terreno del radicale conflitto ideologico a quello esplicitamente paramilitare, segnando un passaggio che caratterizzerà in modo indelebile l’intero decennio successivo della storia del Paese».

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