I più giovani forse non ne hanno memoria diretta, ma la controversa figura di Giulio Andreotti ha rappresentato per più di una generazione di italiani l’emblema stesso del potere politico, non solo in quanto esponente di primissimo piano della Democrazia cristiana, ma anche come personaggio associato, a torto o a ragione, ai misteri della cosiddetta Prima Repubblica, dai tentati colpi di Stato alle trame occulte dei poteri finanziari e mafiosi.
La straordinaria longevità politica di Andreotti – giovane fondatore della Dc, padre costituente, deputato, ministro, presidente del Consiglio, senatore a vita – rende arduo tratteggiarne un profilo storico-politico, andando oltre la cronaca e seguendo i canoni del metodo storiografico. In un simile compito si è cimentato Tommaso Baris, impegnato in un progetto di ricerca ancora in corso sulla biografia del dirigente democristiano. Il suo ultimo volume, a partire da un solido lavoro di scavo nelle carte d’archivio, è dedicato alla prima parte della vita di Andreotti, dalla nascita all’epoca della grande contestazione studentesca, Andreotti, una biografia politica. Dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969), edito dal Mulino (pp. 352, euro 28).
SIN DAGLI ESORDI della sua carriera politica a partire dai tardi anni Trenta, nella Federazione universitaria cattolica italiana, Andreotti sostiene convintamente l’idea dell’unità dei cattolici nella vita politica del Paese, che avrà come sbocco la nascita della Dc, intesa come partito di centro e punto di equilibrio dell’intero sistema politico, nel contesto di un’Italia saldamente inserita nel blocco atlantico. Tra le chiavi del suo successo come leader di partito, oltre al rapporto privilegiato con Alcide De Gasperi e il forte radicamento territoriale nel Lazio, spiccano le grandi doti di mediazione fra personalità politicamente e anagraficamente distanti.
Nel profilo tratteggiato da Baris emerge un leader politico senz’altro moderato, ma in taluni contesti non necessariamente collocabile all’estrema destra del partito. Colpisce la duttilità del personaggio, capace di adattarsi alle diverse fasi della storia repubblicana, mediante riposizionamenti strategici sempre funzionali a un’idea di Dc come baricentro del sistema ed elemento di stabilità per la democrazia, in funzione anticomunista. Troviamo così Andreotti prima fermo oppositore dell’alleanza con i socialisti, poi, seppure su posizioni più moderate rispetto ad Aldo Moro, disposto a includere i socialisti nella maggioranza governativa, appoggiando la svolta del centrosinistra.
Anche sul fronte delle politiche economiche, la linea di sostanziale difesa dell’economia di mercato, minacciata a suo avviso da un’eccessiva estensione del sistema delle partecipazioni statali, si connota sempre per un chiaro principio di priorità della politica e del Parlamento rispetto alle decisioni dei tecnici, a difesa di un ponderato intervento dello Stato a integrazione delle scelte di allocazione delle risorse operate dal mercato.
IL VOLUME giunge fino alla stagione del Sessantotto e delle grandi mobilitazioni operaie. Tra i dirigenti democristiani Andreotti è fra i più preoccupati della radicalizzazione in corso, leggendo il protagonismo giovanile come una manovra del comunismo internazionale. Da questo punto di vista, osserva opportunamente Baris, la figura di Aldo Moro si rivelerà anche negli anni successivi più capace di cogliere le trasformazioni in atto, in vista di un necessario quanto fragile tentativo di riconoscimento delle forti istanze di democratizzazione provenienti dalla società civile.
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