“La borghesia va espulsa con ferro e fuoco”, scriveva nel ’19, in sintonia con Lenin, l’intellettuale sardo. Che non fu mai riformista.
Guido Liguori, sul numero 19 di Sette, ha sostenuto – in polemica frontale con il libro di Alessandro Orsini Gramsci e Turati: le due sinistre (Rubbettino) – che Antonio Gramsci è stato sempre un comunista non violento.Una tesi, la sua, che non può non suscitare il più grande degli sbalordimenti, dal momento che si deve proprio a Gramsci la più brutale teorizzazione della rivoluzione comunista come purificazione sanguinosa della società borghese. Essa fu condensata con le agghiaccianti parole da lui scritte sull’Ordine Nuovo nel dicembre del 1919: «La piccola e media borghesia è la barriera di un’umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè, divenuta oggi serva padrona; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una bardatura che lo soffoca e gli Impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale».
Chiaramente, Gramsci aveva ben compreso il significato della rivoluzione che i bolscevichi stavano facendo in Russia: la purificazione della società sterminando la borghesia (la piccola come la grande) attraverso l’instaurazione del terrore di massa. E, infatti, non appena Lenin si Impossessò del potere con quel fortunato golpe passato alla storia con il nome di Rivoluzione d’Ottobre, egli inviò ai suoi seguaci direttive del seguente tenore: «Instaurare subito il terrore di massa»; «Ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi, ecc.»; «Deportare in massa i menscevichi»; «Agite con la massima decisione contro i kulaki e la canaglia socialista rivoluzionaria»; «Guerra a morte ai ricchi e ai loro reggicoda, gli intellettuali borghesi». Ancora più significativo il fatto che il carismatico leader del bolscevismo mondiale – di cui Gramsci era uno dei capi di maggior prestigio – nel 1922 inviò una lettera a Stalin con la quale gli ricordava quale era la missione storica del Partito comunista: «Noi purificheremo la Russia per molto tempo. Ciò dovrà essere fatto sul campo». È vero che, constatato il fallimento internazionale della “guerra di movimento”, Gramsci indicò nella “guerra di posizione” la lunga via per giungere alla trasformazione rivoluzionaria della società e che, nel carcere, elaborò la teoria dell’egemonia, tutta centrata sul ruolo pedagogico del Partito comunista che, prima di conquistare il potere, doveva conquistare il consenso delle masse con mezzi assolutamente pacifici. Ma ciò non significa che Gramsci si convertì ai valori laici del socialismo liberale e riformista. In lui rimase ferma l’idea che “il socialismo era la religione che avrebbe ammazzato il cristianesimo” e, conseguentemente, rimase fedele alla sua giovanile visione totalitaria della Città futura sino a teorizzare, con una chiarezza offensiva, la natura divina del Partito comunista, così formulata: «II moderno principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo sviluppo significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico».
Nessun commento:
Posta un commento