Nei giorni di Lutzerath, mentre qualche migliaia di ragazzine e ragazzini col cappuccio di lana calato sulle orecchie giocava a nascondino con la polizia dello Stato tedesco per impedire l’apertura di una miniera di carbone, ho visto Lotta Continua il documentario Rai di Tony Saccucci.
È pieno di immagini straordinarie sulle lotte Fiat, e offre prospettive diverse, anche contraddittorie, sulla storia di quella organizzazione e sul panorama sociale degli anni successivi al ’68.
Voglio precisare che non ho partecipato all’esperienza di Lotta Continua, perché dal 1967 mi riconoscevo nelle posizione di Potere Operaio, ma voglio anche precisare che fin da quegli anni mi sentivo spesso più vicino allo spontaneismo di Lotta Continua che al severo tardo-leninismo che dopo l’autunno del ‘69 prese il sopravvento in Potere Operaio.
Tra le tante cose interessanti mi ha colpito una frase di Vicky Franzinetti: “Noi abbiamo perso, e chi perde ha un debito immenso verso le generazioni successive.”
Mi ha fatto pensare, mi sta facendo pensare.
“Abbiamo perso.” Frase problematica. Avremmo potuto vincere? E come avremmo potuto vincere? Trasformandoci in forza politica parlamentare (tentativo peraltro compiuto e fallito) o prendendo le armi in centomila fino al bagno di sangue? O forse avviando un processo di secessione pacifica di un’intera generazione? Più o meno le abbiamo tentate tutte, queste strade, e nessuna era all’altezza del problema.
Ma quando parliamo dei processi storici, l’alternativa vincere o perdere non spiega molto, perché nel divenire reale non c’è alcuna simmetria tra gli obiettivi che ti proponi e quello che accade nel perseguirli: si chiama eterogenesi dei fini.
Nella sfera umana esistono giochi finiti, nei quali è possibile stabilire chi vince sulla base di regole condivise. Ed esistono giochi infiniti, nei quali le regole stesse sono oggetto di conflitto e di contrattazione, per cui non è mai possibile stabilire un vincitore. È così nel gioco dell’amore, è così nel gioco della storia delle lotte di classe, è così nel gioco della guerra.
Ma queste sono chiacchiere filosofiche.
La verità fattuale è che noi ci battevamo per l’uguaglianza e oggi l’1% della popolazione mondiale detiene il 70% delle ricchezze, ci battevamo per la libertà dal lavoro e lo schiavismo è tornato dovunque, e le 40 ore settimanali sono un ricordo. Volevamo la pace e dovunque oggi c’è la guerra. Volevamo la democrazia radicale e dappertutto domina il nazi-liberismo.
Dunque non c’è dubbio: abbiamo perso. Ma chi è quel “noi” che sta parlando? Non i militanti di qualche organizzazione, non il movimento, ma la società intera ha perso. E forse, dalla prospettiva che si delinea ora che la civiltà sociale si sta disintegrando, potremmo dire che a perdere è stata l’umanità civilizzata. Dicevamo infatti: socialismo o barbarie.
Ma esisteva una possibilità di evitare questa sconfitta? E il socialismo avrebbe potuto evitare l’abisso in cui ora stiamo precipitando?
Forse attribuivamo alla volontà una potenza che la volontà non possiede: la volontà può pochissimo. L’immaginazione può un po’ di più: ma forse abbiamo immaginato un possibile che non era possibile.
Si poteva evitare la soluzione finale che si va oggi delineando? Poteva il movimento del ’68 cancellare l’eredità di cinque secoli di violenza contro la terra?
Apprezzo l’onestà spietata di Vicky Franzinetti, ma penso che le sue parole siano sintomo di una sproporzionata fede nella potenza della volontà.
Il movimento a cui abbiamo partecipato affermò che l’uguaglianza e la fraternità sono il solo metodo che può permettere al mondo di sfuggire all’orrore. Ecco tutto. Non sbagliammo a dire questo. Era vero, ed è vero anche adesso. Ma è una verità inoperante, perché le condizioni culturali, psichiche e ambientali rendono l’uguaglianza utopica e la fraternità impossibile.
Dopo il ’68 globale l’uguaglianza e la fraternità furono aggredite e distrutte dalle truppe ideologiche ma soprattutto da quelle militari e tecno-finanziarie del nazi-liberismo.
Noi abbiamo perso e Pinochet ha vinto, e con lui ha vinto il sistema finanziario occidentale che ha aperto la strada alla Reazione Globale, all’estrattivismo del capitalismo globale.
Le innumerevoli esperienze di lotta che si sono succedute nell’era successiva alla sconfitta del comunismo sono esperienze disperate perché prive di un orizzonte realistico: non c’è più una via politica per uscire dalla spirale illimitatamente distruttiva del nazi-liberismo. L’ultima prova di questa impossibilità l’abbiamo avuta, ancora, in Cile tra il 2019 e il 2022.
Dobbiamo per questo pensare che sulle nostre spalle pesa, come dice Vicky, un debito immenso?
L’ultimo libro di Amitav Ghosh (romanzo e saggio filosofico, antropologico e storico) mi fa pensare che no, che non avremmo potuto evitare la resa dei conti con la Terra.
Me lo chiedo davvero, senza avere una risposta, ora che vedo le scene di Lutzerath, ora che vedo le ragazze e i ragazzi di Ultima Generazione che si battono in quella landa gelida come passerotti un po’ spennacchiati aggrediti dal mostro smisurato dell’economia fossile e dall’apparato poliziesco dello Stato tedesco. Come le loro coetanee di Teheran, stanno affrontando una tempesta che non siamo riusciti a evitare.
Ho visto anche Swimmers, il film di Sally El Hosaini, una regista inglese d’origine egiziana: racconta la storia di due sorelle nuotatrici che fuggendo dalla guerra siriana rischiano il naufragio e infine trascinano a nuoto il gommone sgangherato nelle acque del mare che divide la Turchia dall’isola di Lesbo. Sul gommone trainato dalle sorelle Yasra e Sara, precariamente seduti, ci sono bengalesi e siriani accanto a nigeriani e afghani.
Anche questo a mio parere è un film da vedere: parla della tragedia che continua ai confini d’Europa, e che si ingigantisce per effetto delle guerre e del cambio climatico. Il comunismo avrebbe potuto evitare questa tragedia, come pensavamo negli anni ’68?
La maledizione della noce moscata, l’ultimo libro di Amitav Ghosh (romanzo e saggio filosofico, antropologico e storico) mi fa pensare che no, che non avremmo potuto evitare la resa dei conti con la Terra.
Secondo Ghosh il capitalismo globale trae origine da una prolungata guerra biopolitica che le potenze colonialiste scatenarono contro l’ecosistema del pianeta. Le popolazioni indigene che erano parte integrante dell’ecosistema planetario furono sterminate dalle guerre biopolitiche. Da quella devastazione il capitalismo industriale trasse la sua energia, provocando una mutazione climatica e biologica che la volontà politica non può più governare. Il processo di Terraformazione che rese possibile la creazione dell’industria moderna ha messo in moto processi irreversibili che hanno effetti devastanti sulla continuità della vita associata.
Ghosh scrive: “Le similitudini tra l’attuale crisi planetaria e gli sconvolgimenti ambientali che distrussero mondi vitali di innumerevoli popolazioni amerindie e australiane hanno qualcosa di perturbante”.
Ci siamo a lungo illusi che la civiltà potesse sopravvivere alle devastazioni prodotte dall’estrattivismo, dal super-sfruttamento nervoso, dall’inquinamento dell’ambiente fisico e mentale. Ma nel nuovo secolo cominciamo a renderci conto che non è così: anche se forse gruppi di umani sopravviveranno, l’umanità non può sopravvivere. Anzi, guardando il panorama psico-politico contemporaneo, si può pensare che l’umanità già non esiste più. I miei vecchi compagni di Lotta Continua, o almeno i loro ex dirigenti forse credono nell’esistenza di guerre nazionali giuste: quasi tutti hanno preso posizione a favore della guerra nazionale ucraina, e sostengono l’invio di armi a quei combattenti.
Dicono che è come ai tempi del Vietnam, ma non è vero niente: per tutti noi (e per i miei compagni di LC) quella era una guerra internazionalista contro l’imperialismo di un paese lontano. Questa di oggi è una carneficina nazionalista voluta armata e sfruttata dal nazi-liberismo atlantico che usa cinicamente la vita di milioni di ucraini e di ucraine per gli interessi dei grandi produttori di armi e per la spartizione del mercato dei combustibili fossili.
I miei vecchi compagni hanno perduto il bene dell’intelletto ma non per questo ho smesso di volergli bene, perché tutti questi (anche lo sterminio del popolo ucraino o lo sterminio del popolo palestinese) non sono che dettagli dell’Olocausto globale in corso. Di questo parla il libro di Ghosh, nel quale compare un nuovo attore, che gli storici moderni non hanno saputo vedere come soggettività: la Terra cui lo scrittore attribuisce una agency, un’intenzionalità che non siamo in grado né di comprendere né di governare:
“Chissà che entità e forze non umane artificiali e naturali non stiano perseguendo obiettivi loro propri, di cui gli umani non sanno nulla”.
L’eredità della colonizzazione appare irreversibile non solo sul piano fisico e biologico, ma anche sul piano sociale e su quello antropologico. Sul piano sociale il modo di produzione capitalistico non avrebbe potuto mai affermarsi senza lo sterminio, la deportazione e la schiavitù.
Dice Ghosh: “L’era delle conquiste militari ha preceduto di secoli l’emergere del capitalismo. Proprio tali conquiste e i sistemi imperiali che ne sono derivati hanno promosso l’ascesa inarrestabile del capitalismo.” E secondo Cedric Robinson “la relazione tra manodopera schiavistica, tratta degli schiavi e formarsi delle prime economie capitaliste è palese”.
Sul piano antropologico inoltre “fu la trasformazione degli esseri umani in risorse mute a permettere il balzo concettuale in seguito al quale divenne possibile ridurre all’inerzia la Terra e tutto ciò che conteneva… Solo dopo averlo immaginato come morto abbiamo potuto dedicarci a renderlo tale” (ancora Ghosh).
L’intero movimento storico della modernità ha raggiunto il suo punto di disintegrazione: questo è il senso del XXI secolo.
Non avremmo potuto evitare questa disintegrazione, se avessimo vinto. Si rassicuri Vicky Franzinetti.
La guerra mondiale asintotica nella quale siamo coinvolti dal 24 febbraio del 2022, non fa che accelerare la catastrofe ambientale definitiva: è guerra nazionale contro l’imperialismo fascista russo, che però è stata voluta sobillata e armata dall’imperialismo nazi-liberista atlantico.
Quella guerra – moltiplicatore spaventoso della catastrofe climatica e conseguentemente migratoria – è segno inequivocabile del collasso mentale, e della demenza senile da cui è affetto il genere umano.
Al di là dell’oscena retorica del nazionalismo (sia russo che ucraino), all’origine di questa guerra ci sta la questione energetica (il North Stream 2 e la volontà americana di rompere quel legame tra Germania e Russia).
Il risultato di quella guerra è un rilancio del fossile, proprio mentre lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento degli oceani e mille altri segnali ci stanno avvertendo che siamo fuori tempo massimo, e proseguire nell’economia fossile significa il suicidio della civiltà umana.
Lutzerath ce lo ricorda, e intanto il carbone è di ritorno.
Ghosh osserva che “i combustibili fossili sono le fondamenta su cui poggia l’egemonia strategica dell’Anglosfera” e che “la militarizzazione è l’attività che più contribuisce alla devastazione ambientale”.
Vada come vada la guerra, una cosa è certa: gli sforzi produttivi del prossimo futuro saranno dedicati più che mai a costruire armi sempre più potenti.
Non il finanziamento del sistema sanitario che il nazi-liberismo ha distrutto dovunque, non il finanziamento dei sistemi educativi, sbrindellati dall’offensiva privata e dal caos info-nervoso: la guerra sarà l’impegno principale degli Stati e dei sistemi produttivi.
“Esiste il gravissimo rischio che la nostra civiltà stia giungendo al capolinea. In qualche modo la specie umana sopravviverà, ma distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni” dice Hans Joachim Schellnhuber (citato da Amitav Ghosh).
Ecco allora che gruppi di disertori abbandonano la scena della storia per vivere tra le rovine della modernità, come i funghi che crescono proprio laddove tutto si decompone, come dice Anna Lowenhaupt Tsing ne Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo.
È lì che deve spostarsi la nostra riflessione: oltre l’individuo, oltre la specie, tra le rovine in decomposizione.
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