I ricordi di chi muore sono da sempre una nobile impresa, con le sue degne regole. Qualunque formulazione abbiano, per lo più in latino, la sostanza è quella: Non infierire. Non bisogna guardarsi solo dalla cattiveria. C’è un formidabile equivoco, o peggio, una miserabile soddisfazione, nel credere di avere un vantaggio dall’essere vivi, dal sopravvivere, fosse anche un minuto di più. E’ il rischio dei professionisti di necrologi, che per giunta scrivono già di viventi e sono tenuti ad aggiornare via via – a volte arrivano prima loro. Chi voglia ridurre il danno ha solo due modi: rinviare il più possibile, e siccome comunque il momento viene, farsi autore del proprio necrologio. Toni Negri ha fatto le due cose, e oltretutto aveva delle ottime ragioni: ha esagerato, hanno esagerato.
Tra il 2015 e il 2020 ha pubblicato (con Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie) tre volumi della propria “Storia di un comunista”. L’ultimo comincia dalla decisione di rientrare da Parigi in Italia, e in galera, nel 1997. A deciderlo è la fiducia in un provvedimento che metta fine ai conti sospesi degli anni Settanta, per lui e tanti, e anche la solitudine e il tormento di un amore perduto – “Nessuno che ama può ritenersi indenne dalla pazzia”. La galera durerà più a lungo di quanto gli era stato promesso, come succede. Per alcuni anni vivrà fra il giorno fuori e la notte dentro, in un’alternanza di diurno stato di grazia, la famiglia ritrovata, un nuovo amore, l’uscita e il successo spettacoloso di “Impero”, e di notturna disgrazia, salva la comunità dei detenuti. E’ già anziano, ha le sue cadute, e un’abitudine a ricominciare: “Si ricomincia!” Di sé, fa l’elogio dell’ambiguità (non abbiate fretta di dedurre quello che già sapete, si tratta del rapporto fra teoria e pratica, fra lo studioso e il militante attivo). Della morte, troppo presto, di Luciano Ferrari Bravo scrive: “Ci completavamo, senza gelosia alcuna, né mia per la sua intelligenza né sua per la mia retorica... Noi siamo tutti degli spinozisti. Per noi la morte non c'è. Non possiamo ora pensare a Luciano che come ad una presenza. La presenza di un uomo che ha saputo vivere da giusto. Nell'eternità quindi”.
Il libro riserva un ampio spazio alla ricostruzione di avvenimenti e interpretazioni politiche e miti. Il proletariato, la classe, la distinzione dalla massa e dal popolo e dalla folla, la moltitudine e, chissà, di nuovo la classe... Poi ha una lunga parte finale, “De senectute”. Ha superato gli 80 anni, poi ha toccato gli 85, ed è malato. Ricorda una lontana visita famigliare al Cimitero dei Comunardi, al Père Lachaise, la loro libertà dalla morte. Il necrologio preventivo si fa più stretto, e a prima vista sorprendente: “Il potere è fondato sull’introdurre la morte come possibilità di ogni giorno nella vita. Senza la minaccia di morte, idea e pratica del potere non potrebbero darsi... La forte risposta all'imposizione della morte all'uomo sta nell'assumere la vita come continua resurrezione... Si nasce di nuovo mille volte nella vita, e ogni volta così si allontana la morte. Il sapere e le sue tecniche, la manipolazione e la trasformazione della natura, sono una lotta continua contro e oltre la morte... Non c'è ecologia se non in questo quadro costruttivo di resurrezione della carne”. I necrologi, i commiati, si sa, devono essere brevi.
C’è la paginetta famosa di Croce che cita Di Giacomo che risponde a un passante: “Come state?” “Non lo vedi? Sto morendo”. Negri scrive pagine e pagine, divise in capitoli, sulla vecchiaia che avanza sottratta alla dipendenza dall’imminenza della morte. Sul pregio della spontaneità e dell’Hilaritas – lui sbigottiva i nuovi conoscenti con la risata improvvisa e prorompente, e scrive del “ridere come insubordinazione libertaria... Difesi e difendo la mia capacità di ridere come principio di esistenza. Di più... come potenza espansiva del mio essere”. E’ come se non volesse finirla, questa sua storia da vecchio, e la ricomincia daccapo. “Sono stato punito per essere stato un ‘cattivo maestro’! Sappiano i miei persecutori che ritengo abbiano agito in maniera stolta, in odio dell'umanità- e li disprezzo. Erano vecchi che volevano mettere paura a giovani che scuotevano e liberavano il mondo...”. Il De Senectute del resto si rivolge ai giovani, fra l’affabile e il carducciano: “E poi c'è qualche vecchietto, un po’ matto, che, come un'ombra cinese o come un fuoco fatuo, salta qua e là, dentro questo schermo di gioventù. Salve, forza benefica!”
Siamo al saluto finale: “Non mi rimane, amici miei, che lasciarvi. Con il sorriso, con dolcezza, dedicando queste pagine, questi tre volumi che sto concludendo, a quegli uomini e donne virtuosi che nell'arte della sovversione e della liberazione mi hanno preceduto, e a quelli che seguiranno. Abbiamo detto che sono ‘eterni’ - l'eternità ci abbracci”.
Ma nemmeno qui è finito. C’è un Post Scriptum, della Pasqua 2020. Nella clausura della pandemia, che gli fa dire che il tempo che era stato suo “gli è diventato irriconoscibile... una distanza abissale...”. Dei libri che lo circondano, non uno è più capace di soccorrere. “Il combustibile si è esaurito”. Ma anche questa volta, forse, saranno i corpi a resuscitare contro la dilapidazione.
Ha detto tutto di sé, e a modo suo, pensiero e azione, fin quasi all’ultima notte. Ha lasciato un libro da pubblicare postumo, credo. Non si può fare di più per ammonire i titoli dei necrologi.
Titolo dei necrologi: “E’ stato un cattivo maestro”.
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