Che sia «tecnico» o «politico» chi governa il debito pubblico in Italia non fa altro che sperequare i suoi costi ai danni di chi non può opporsi. È una politica di classe, non un tradimento di un paese «fallito», «in declino», corrotto o corruttore. A dispetto del suo presunto ruolo «politico», il governo Meloni non fa differenza. Sta gestendo una politica fallimentare che aggrava i problemi, li fa pagare ai cittadini e ai lavoratori, aumenta la concentrazione delle ricchezze e le ingiustizie.
È LA TESI che si desume dalla lettura del libro bello e utile di Marco Bertorello e Danilo Corradi Lo strano caso del debito italiano (Alegre, pp. 362, euro 18). Redattori della rubrica Nuova finanza pubblica su Il manifesto, gli autori hanno concepito una tesi che spazza via luoghi comuni radicati sin dalla storiografia post-risorgimentale: l’Italia anello debole dello sviluppo capitalistico, popolata da imprenditori levantini, governata da uno Stato inefficiente in un paese dove la «modernizzazione» è stata mancata.
Bertorello e Corradi dimostrano l’infondatezza interessata di un simile ragionamento che limita la storia a una prospettiva impolitica. L’italia è invece un paese moderno. E il suo alto debito non è stato tanto generato da apprendisti stregoni senza cultura economica, ma soprattutto da un progetto politico che ha usato il debito pubblico per garantire un modello di sviluppo profondamente ingiusto e radicato sulla bassa pressione fiscale sui capitali che ha favorito, già dagli anni Ottanta del XX secolo, il blocco sociale dell’individualismo proprietario composto da professionisti, commercianti, piccole e grandi aziende che non investono, risparmiano sui salari, non fanno innovazione, evadono o eludono il fisco.
SONO QUESTI I NODI di una modernizzazione reazionaria coerente con uso privato delle risorse pubbliche che avvantaggia il capitalismo nazionale interessato a un posizionamento subalterno nel mercato mondiale. Questo capitalismo fa pagare i suoi costi ai bassi salari e alle scarse tutele sociali. La sua politica ha permesso di mantenere in ordine un paese disperatamente pacificato nel corso della fase ascendente della globalizzazione. Ed è sulla stessa politica che si crede oggi di potere affrontare un’altra fase della globalizzazione, che gli autori definiscono «selettiva», emersa dalla crisi globale tra il 2007 e il 2015 e che si sta manifestando nelle nuove devastanti crisi dopo il Covid, attraverso guerre, contrapposizioni di blocchi geo-economici e rovesciamenti caotici di ogni tipo. Ieri, come oggi, dovrebbero essere i salari e i redditi medio-bassi a finanziare l’austerità e ad evitare che il paese sia stritolato dalle nuove crisi.
QUESTO SISTEMA della subfornitura per le imprese globali, basato sulla competizione al ribasso sul costo del lavoro, punta a ricavare una rendita nell’attuale fase protezionistica, incentrata sulle guerre commerciali degli Stati Uniti contro i paesi asiatici. Si pensa cioè di rimpiazzare le produzioni di ritorno dalle vecchie esternalizzazioni verso la Cina, e i suoi satelliti, pagando i lavoratori in proporzione ma allo stesso modo. Un limite, ingiusto oltre che implausibile, che però si ritiene possa trasformarsi in un vantaggio competitivo a favore dei profitti e delle rendite.
In questa prospettiva andrebbe intesa l’ultima grande ascesa del debito pubblico italiano, la quarta nella storia unitaria del paese, ricostruiscono gli autori. Certo, errori enormi ne sono stati fatti. Certo, c’è stata la corruzione e il clientelismo, fenomeni sociali che hanno condizionato la qualità della spesa più che la sua quantità. In realtà, nell’ultimo mezzo secolo, tale aumento è stato una risposta pragmatica all’esaurimento del modello keynesiano-fordista, quello dei «Trenta gloriosi» che ha associato l’aumento della produttività con quello dei salari, ma non ha garantito una crescita sociale coerente con le sue premesse moderatamente riformistiche. L’uso compensativo del debito pubblico in Italia ha posticipato le contraddizioni che si ritrovano immutate nel nuovo modello, il «keynesismo finanziario».
UNA SIMILE SOLUZIONE ha solo posticipato la crisi di una legge capitalistica, quella per cui ci si indebita in una crisi in vista di una crescita successiva che ripaga il debito contratto in precedenza. Questa legge non funziona più: i debiti crescono su loro stessi. Il nazionalismo o la concorrenza non risolvono il problema. Bisogna, invece, superare le sue cause: il fallimento del paradigma economico fondato sulla centralità della finanza che ha determinato la bassa crescita e l’aumento delle diseguaglianze.
Anomala, dunque, non è stata la storia del debito italiano, ma quella delle lotte che già mezzo secolo fa hanno cercato un’alternativa all’aumento dei saggi di profitto, alla riduzione dei salari e al mantenimento dei consumi che distruggono il pianeta. Un’anomalia di questo tipo andrebbe ricercata. E trovata, un’altra volta ancora.
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