Alla vigilia della "notte dei fuochi" il filosofo Vattimo infiamma la discussione. Per il pensatore torinese in Valsusa c'è un “vuoto di democrazia” che giustifica forme di protesta “non istituzionali”. Provocazioni anticonformiste o lezioni di un cattivo maestro?
Partigiani o sovversivi? Patrioti o delinquenti? Mentre gran parte degli intellos nostrani ha abbandonato i No Tav e preso le distanze dalle derive estremistiche del movimento – a partire dallo scrittore-guru Roberto Saviano -, c’è chi rivendica non solo le ragioni di una protesta che oggi travalica gli stessi confini (geografici e politici) della Valsusa, ma difende anche i metodi di lotta, arrivati a comprendere vere e proprie azioni di guerriglia, con tutto il corollario di violenze pubbliche e private, blocchi autostradali, aggressioni a persone e cose. Tra chi sostiene legittima questa forma di conflitto c’è il filosofo Gianteresio Vattimo, detto Gianni, teorico del “pensiero debole” ed europarlamentare dell’Idv, dopo esserlo stato per i Ds e i Comunisti italiani. Ospite d’onore alle due “cene filosofiche” a Chiomonte e Bussoleno, il pensatore torinese ha tratteggiato quel filo rosso che, a suo dire, unisce Progresso e Infrastrutture, Alta Velocità e opposizione a uno Stato che rifiuta di dar ascolto alla popolazione. È volato alto, il professore, trattando a tavola di «Grandi opere e grandi narrazioni», come sintetizza in un colloquio con Lo Spiffero. Piatto forte: la critica alle istituzioni che da anni «truffano l’Europa e non adempiono alle stesse condizioni imposte da Bruxelles». E sul crinale delle teorie giusnaturaliste e del diritto positivo, sull’esercizio del potere da parte di uno Stato che tradisce la stessa essenza della rappresentanza democratica, il vispo Gianteresio concede la piena legittimità alla lotta No Tav, sovvertendo – lui che da natali democristiani sale oggi sulle barricate con le sue 77 primavere sul groppone – il luogo comune che vuole imberbi incendiari tramutarsi in attempati pompieri.
E alla vigilia della “notte dei fuochi”, in programma questa sera a partire dalle alle 23 al campeggio di Chiomonte e sulla strada che da Giaglione porta al cantiere all’altezza dell’autostrada, ha infiammato la platea. Ma in che modo la contrarietà a un’opera può conciliarsi con le azioni violente di questi ultimi mesi? È possibile giustificare l’uso della forza da parte di un movimento che nei fatti agisce legibus solutus? Come sempre, è questione di mezzi e fini, come diceva Benjamin “la giustizia è il criterio dei fini, la legalità è il criterio dei mezzi”. Per Vattimo tali azioni sono legittime: «Le manifestazioni e i blocchi stradali sono utili di fronte a un vuoto di democrazia. In una valle in cui lo Stato ha preferito la militarizzazione all’ascolto». E ancora: «Le inadempienze pubbliche giustificano forme di lotta non istituzionale». Insomma, lo Stato viene meno ai propri doveri, rompe il patto con (una parte) dei suoi cittadini e questi si riappropriano di prerogative, come l’uso della forza e della coercizione, per perseguire i propri obiettivi.
Vattimo, studioso di Heidegger, è proprio dal padre dell'esistenzialismo che prende le mosse, secondo il resoconto che fa Luciano Davi sul suo blog. “La vera emergenza è la mancanza di emergenza” sosteneva il filosofo tedesco da sempre contrario alla metafisica. «Bisogna recuperare l’esistenzialismo» sostiene Vattimo, rendersi conto attraverso esso che viviamo per lottare. Heidegger sosteneva che l’esistenza fosse “progetto”, che l’uomo rappresentasse di per sé l’idea del cambiamento. E Heidegger non è Kant, che ha occhi per osservare il mondo, per descriverlo e sistematizzarlo; per Heidegger l’uomo è “progetto”, non guarda il mondo per prenderne atto, ma per cambiarlo. L’idea di osservazione che ci è stata tramandata è un’idea statica di contemplazione, di una realtà ordinata. È quindi più facile intimare di cambiare se stessi che cambiare il mondo; ma il conflitto, generalizzato ormai, si stringe attorno a un capitalismo di sfruttamento che collide con tutto il resto della società che rimane esclusa. La tecnicizzazione della politica che si è avuta in Italia è il percorso che dai tecnici, di per sé neutrali nelle proprie specifiche competenze, rimette la gestione della cosa pubblica, della politica, in mano ai banchieri. “Persino Gobetti” dice Vattimo “si scandalizzerebbe a vedere calare dall’alto tecnici che impongono una stasi ad un sistema che, anziché progredire, retrocede all’interno sempre del medesimo schema composto da uno sfruttato e da uno sfruttatore”. Nulla come il conflitto può innescare quel cambiamento che è progetto, sia a livello umano sia a livello sociale. E la lotta NoTav risiede proprio in una logica di conflitto. “Vivo politicamente perché ci siete voi” dice Vattimo, “perché ci sono fenomeni di lotta come il NoTav o il NoMuos”. Poiché l’unica speranza risiede nella moltiplicazione dei conflitti territoriali. In questo senso allora, le lotte sprigionate dai conflitti territoriali non solo promuovono il cambiamento, ma arginano quel pericolo di tornare al fascismo che risiede nel crescendo di difficoltà e conflitti sociali in corso. Sono le azioni locali, diffuse, che ora come ora si offrono come unica azione atta a impedire l’insorgere di un regime in piena regola. È necessaria la filosofia per non perdersi nei conflitti di parte, perché ogni conflitto è calato in un conflitto globale.
Un concetto che in parte ribadisce anche un altro intellettuale torinese che di Vattimo è stato tra gli allievi più brillanti, Diego Fusaro, filosofo neo-marxista, columnist dello Spiffero. La sua argomentazione parte da alcuni presupposti sulla natura antropologica della sinistra domestica: «Innanzitutto non si deve cadere nell’errore tipico della sinistra che quando c’è il popolo in piazza vi scorge sempre un elemento rivoluzionario, alla perenne ricerca di un revival sessantottesco». «Detto questo, però, sostengo che chi vuol essere coerente non può puntare il dito contro i No Tav senza condannare la vera violenza che ci viene perpetrata quotidianamente: quella dell’economia sugli uomini, delle agenzie di rating, del Fondo monetario internazionale, dell’Europa. Oggi la democrazia non esiste. Oggi lo Stato italiano e quindi il suo popolo non sono sovrani sul proprio territorio, basti pensare allo scempio delle basi militari americane. E’ il mercato la violenza di tutte le violenze e il presupposto che la velocità con cui viaggiano le merci sia più importante di quanto pensi una comunità ne è la testimonianza». In questo senso, secondo Fusaro, Vim vi repellere licet, ovvero è lecito respingere la violenza con la violenza.
Vattimo, studioso di Heidegger, è proprio dal padre dell'esistenzialismo che prende le mosse, secondo il resoconto che fa Luciano Davi sul suo blog. “La vera emergenza è la mancanza di emergenza” sosteneva il filosofo tedesco da sempre contrario alla metafisica. «Bisogna recuperare l’esistenzialismo» sostiene Vattimo, rendersi conto attraverso esso che viviamo per lottare. Heidegger sosteneva che l’esistenza fosse “progetto”, che l’uomo rappresentasse di per sé l’idea del cambiamento. E Heidegger non è Kant, che ha occhi per osservare il mondo, per descriverlo e sistematizzarlo; per Heidegger l’uomo è “progetto”, non guarda il mondo per prenderne atto, ma per cambiarlo. L’idea di osservazione che ci è stata tramandata è un’idea statica di contemplazione, di una realtà ordinata. È quindi più facile intimare di cambiare se stessi che cambiare il mondo; ma il conflitto, generalizzato ormai, si stringe attorno a un capitalismo di sfruttamento che collide con tutto il resto della società che rimane esclusa. La tecnicizzazione della politica che si è avuta in Italia è il percorso che dai tecnici, di per sé neutrali nelle proprie specifiche competenze, rimette la gestione della cosa pubblica, della politica, in mano ai banchieri. “Persino Gobetti” dice Vattimo “si scandalizzerebbe a vedere calare dall’alto tecnici che impongono una stasi ad un sistema che, anziché progredire, retrocede all’interno sempre del medesimo schema composto da uno sfruttato e da uno sfruttatore”. Nulla come il conflitto può innescare quel cambiamento che è progetto, sia a livello umano sia a livello sociale. E la lotta NoTav risiede proprio in una logica di conflitto. “Vivo politicamente perché ci siete voi” dice Vattimo, “perché ci sono fenomeni di lotta come il NoTav o il NoMuos”. Poiché l’unica speranza risiede nella moltiplicazione dei conflitti territoriali. In questo senso allora, le lotte sprigionate dai conflitti territoriali non solo promuovono il cambiamento, ma arginano quel pericolo di tornare al fascismo che risiede nel crescendo di difficoltà e conflitti sociali in corso. Sono le azioni locali, diffuse, che ora come ora si offrono come unica azione atta a impedire l’insorgere di un regime in piena regola. È necessaria la filosofia per non perdersi nei conflitti di parte, perché ogni conflitto è calato in un conflitto globale.
Un concetto che in parte ribadisce anche un altro intellettuale torinese che di Vattimo è stato tra gli allievi più brillanti, Diego Fusaro, filosofo neo-marxista, columnist dello Spiffero. La sua argomentazione parte da alcuni presupposti sulla natura antropologica della sinistra domestica: «Innanzitutto non si deve cadere nell’errore tipico della sinistra che quando c’è il popolo in piazza vi scorge sempre un elemento rivoluzionario, alla perenne ricerca di un revival sessantottesco». «Detto questo, però, sostengo che chi vuol essere coerente non può puntare il dito contro i No Tav senza condannare la vera violenza che ci viene perpetrata quotidianamente: quella dell’economia sugli uomini, delle agenzie di rating, del Fondo monetario internazionale, dell’Europa. Oggi la democrazia non esiste. Oggi lo Stato italiano e quindi il suo popolo non sono sovrani sul proprio territorio, basti pensare allo scempio delle basi militari americane. E’ il mercato la violenza di tutte le violenze e il presupposto che la velocità con cui viaggiano le merci sia più importante di quanto pensi una comunità ne è la testimonianza». In questo senso, secondo Fusaro, Vim vi repellere licet, ovvero è lecito respingere la violenza con la violenza.
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