Certamente Matteo Renzi non è un democristiano; altrettanto certamente però è cattolico. Lo è in modo pubblico e noto (nei pochissimi mesi da che è presidente del Consiglio non si contano le foto che lo ritraggono all’uscita dalla messa domenicale, da solo o con la famiglia), lo è presumibilmente gran parte del suo retroterra ideale, così come sono cattolici molti dei suoi più importanti giovani collaboratori. La cosa, tuttavia, non sembra aver suscitato fin qui l’interesse di nessuno. Il che è davvero strano, se si considera la sua condizione di leader di un partito di sinistra come il Partito democratico. Cioè di un partito che nella sua storia ha vinto solo questa volta correndo da solo (vale a dire non coalizzato con altri e sotto la guida di un suo iscritto), così come solo questa volta ha ottenuto una così alta percentuale di voti: e guarda caso entrambe le circostanze si sono realizzate quando alla sua testa c’era un cattolico come Renzi. In realtà è abbastanza ovvio pensare che nel successo ora detto l’appartenenza cattolica di Renzi abbia contato non poco. Specie nel farlo percepire da quella parte dell’opinione pubblica tradizionalmente lontana dalla sinistra in una luce rassicurante, come una personalità capace di apertura alle ragioni altrui, poco propensa al pregiudizio ideologico, incline alla moderazione. Caratteristiche che naturalmente anche chi non è cattolico può benissimo possedere (e possiede), ma che nella storia del cattolicesimo politico sembrano trovare un fondamento e una compiutezza in certo senso più naturali e più convincenti.
Ma dietro quelle caratteristiche c’è poi una cosa come la fede. C’è il cattolicesimo. Nel nostro caso un particolare tipo di cattolicesimo. Non quello che improntava di sé tanta parte della vecchia Democrazia cristiana con le sue radici nel primo Novecento. Vale a dire quell’impasto peculiare fatto di religiosità sociale lombardo-veneta da un lato - risonante ancora di echi controriformistici e di ideali organicistici, proprio di molte élites urbane anche nobiliari dell’Italia padana - e dall’altro dell’autonomismo sturziano intriso di fermenti liberali. Bensì un cattolicesimo diverso di un’ Italia diversa: di quell’Italia media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università Cattolica giunge, passando per i portici di Bologna, fino alla pieve di Barbiana. È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero e spregiudicato che ricorda Savonarola e la consapevolezza tormentata della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena intellettualistica e insieme da una devozione antica, popolaresco quanto l’altro era popolare, assuefatto al confronto con chi non ha i suoi ideali e a misurarsi con esso. È questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e l’asprezza originaria dei contenuti. È fuori luogo - ricordando la formazione dell’attuale presidente del Consiglio e di altri che stanno intorno a lui - definirla senz’alcun intento spregiativo una versione da boy scout? Cioè una versione di cattolicesimo certamente debole rispetto all’originale; una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti, tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di «società cristiana», per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo, abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione; pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità. Una versione da boy scout, quella del cattolicesimo di Renzi, che trova una spia quanto mai significativa non solo nell’uso continuo che il presidente del Consiglio fa del «tu» e del termine «ragazzi» - che si tratti dei giornalisti o dei suoi collaboratori - ma soprattutto nell’assai percepibile dimensione del capobranco, dell’Akela , che egli incarna rispetto a coloro che gli sono più vicini, ai fedelissimi dell’inner circle . Ma altresì, viene da pensare, una versione di cattolicesimo efficiente e compassionevole, «simpatico» e «semplice», che oggi, nell’epoca di papa Francesco, è forse il solo cattolicesimo politicamente declinabile e spendibile. Il Pd deve la propria inaspettata affermazione a un leader singolare come Renzi - singolare rispetto a tutto il passato di tale partito -. Un leader che qualunque sia la sua parabola futura ha però già ottenuto un risultato con ogni probabilità non passeggero per quel che riguarda il nostro sistema politico. Finora, infatti, una decisiva debolezza del bipolarismo italiano stava nella circostanza che esso aveva visto una volta almeno un grande successo della Destra, ma mai però qualcosa di analogo da parte della Sinistra storicamente tale. Da qui, su questo versante dello schieramento politico, dubbi e riserve più o meno taciti a proposito del bipolarismo medesimo. Dubbi e riserve che da oggi in poi però, dopo la vittoria del 25 maggio, difficilmente avranno più ragione di essere. Renzi, infatti, ha dimostrato che anche il Pd, il partito della Sinistra, può avere la meglio da solo in una competizione elettorale. Che proprio il bipolarismo, cioè, può come nessun altro sistema aprirgli la strada del potere. Già questo non è un risultato da poco.
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