La vecchia e suggestiva teoria del panino pacifista si aggira oramai come uno zombie nei corridoi dei ministeri degli Esteri europei e nelle redazioni delle riviste di relazioni internazionali di Washington. È la Golden Arches theory of conflict prevention, la Teoria degli Archi d’Oro di prevenzione dei conflitti, dove gli archi sono quelli di McDonald’s. La presentò Thomas Friedman, il commentatore di politica estera del «New York Times», nel 1996. L’idea alla base è questa: Paesi con classi medie in crescita, simboleggiate dal loro accesso a McDonald’s, sono più interessate alla polpetta che a menar le mani: tanto è vero che due Paesi che ospitano McDonald’s non si sono mai fatti la guerra.
La teoria era già gracile qualche mese fa, fatta vacillare dai conflitti in Jugoslavia, dagli scontri armati del 1999 tra India e Pakistan, dall’invasione del Libano da parte di Israele nel 2006 e da quella russa della Georgia nel 2008. Ma ora è in piena ritirata: lo scorso aprile, la multinazionale degli archi d’oro ha deciso di chiudere i suoi tre ristoranti in Crimea, a seguito dell’annessione alla Russia. E la teoria, un tempo salutata come brillante prova del potere della globalizzazione, pare destinata a spegnersi, oscurata dai possenti «conflitti di egemonia» verso cui è avviato il mondo: l’interconnessione economica che ha coperto il pianeta con la sua rete di affari, commerci e comunicazioni non è più sufficiente a tenere unite le «zolle tettoniche» culturali, religiose e storiche che agiscono in profondità e si allontanano tra loro. La «globalizzazione americana», che ha garantito una base di stabilità dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è fermata e in molti casi ha messo la retromarcia: altre potenze, reali o presunte, cercano di riempire i vuoti che si creano. Risultato: sul pianeta si stanno aprendo larghi canyon geopolitici.
Nel suo ufficio di Washington del Peterson Institute, Fred Bergsten, uno degli strateghi politici ed economici più influenti della capitale americana, nota che «oggi, nel mondo, Europa e Stati Uniti sono in minoranza». Quello che sta avvenendo lo definisce the rise of the rest, l’ascesa degli altri. È il fenomeno che ha caratterizzato gli scorsi 15 anni e che la Grande Crisi del 2008, che ha colpito soprattutto l’Occidente, ha reso evidente. È un’ascesa che avviene a più livelli. «Per esempio — dice Bergsten — a livello istituzionale i Brics sfidano il vecchio ordine di Bretton Woods», cioè le regole e le istituzioni create nel 1944 da Stati Uniti e Gran Bretagna per gestire l’economia del dopoguerra. Oggi Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica — i Brics, appunto — sono insoddisfatti di quel sistema, imperniato su Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, e hanno deciso il mese scorso di creare una loro banca e un loro fondo aperti anche ad altri Paesi emergenti. Non una rottura, almeno per ora, ma il nocciolo di una possibile alternativa.
I Brics sono troppo diversi tra loro, troppo lontani e con interessi divergenti per costituire un blocco alternativo. Ma la loro messa in discussione, 70 anni dopo, dell’ordine economico creato a Bretton Woods (l’ordine monetario era già venuto meno negli Anni Settanta) non è una cosa da poco: è il segno dei grandi smottamenti politici in corso. Al di là della critica alle due grandi istituzioni sovranazionali di Washington, è anche un colpo all’idea di gestione multilaterale degli affari, il criterio per il quale le aperture commerciali e d’investimento non devono essere discriminatorie verso alcun Paese e grazie al quale l’economia del mondo è cresciuta a grandi ritmi e in modo tutto sommato pacifico per decenni. È il rifiuto dell’idea che il mondo dell’economia non si debba dividere in blocchi. Che invece è ciò che in parte sta succedendo: i commerci internazionali tendono sempre più a prendere la strada di accordi commerciali bilaterali o regionali; la Wto, custode dell’approccio multilaterale, è in crisi, messa ai margini.
E anche gli Stati Uniti hanno lanciato due grandi negoziati regionali di liberalizzazione degli scambi, uno transatlantico (Ttip) e un transpacifico (Tpp), che escludono la Cina, la Russia, l’India. Mossi dall’idea, apparentemente condivisa dall’Unione Europea, che l’Occidente debba scrivere nuove regole, aperte e avanzate, per spingere il resto del mondo ad adeguarsi. «Nonostante siano in minoranza — sostiene Bergsten — Stati Uniti ed Europa sono ancora in tempo a stabilire le regole. Tra dieci anni non so». Opinione molto condivisa a Washington: secondo Garret Workman, direttore associato dell’Atlantic Council, «per Usa e Ue questa è l’ultima occasione per esercitare una leadership globale. È sbagliato chiamare “Nato economica” l’accordo commerciale transatlantico in preparazione: non lo è; ma certamente può essere, con la Nato, il secondo pilastro dell’Occidente»: che in prospettiva è allargato a Canada, Messico, Australia, Nuova Zelanda, Giappone. Fratture in economia che seguono le divergenze della geopolitica: d’altra parte, nota Bergsten, «negli Stati Uniti ogni grande accordo commerciale è sempre stato guidato dalla politica estera e dalla sicurezza nazionale ». Affari e politica di potenza che marciano assieme.
Dunque, abbiamo un blocco occidentale, la zolla della democrazia e del libero mercato, che sta cercando di compattarsi. Per rispondere alla rise of the rest, che in diverse forme è in pieno dispiegamento. Il vertice con i leader africani organizzato nei giorni scorsi dal presidente Obama è il segno più spettacolare dell’intreccio tra economia e geopolitica e dei problemi che vive la globalizzazione. La penetrazione dei capitali, delle imprese e dei lavoratori cinesi è la grande novità del continente africano degli ultimi anni, anni di crescita (dopo decenni di stagnazione) in buona parte indotta proprio dagli investimenti di Pechino. Qualcosa che non è solo in concorrenza con gli interessi delle imprese americane ed europee, ma è anche l’affermarsi in una serie di Paesi del modello cinese, autoritario ma, almeno nel medio periodo, efficiente ed efficace. Una competizione di modello che non può non preoccupare l’Occidente, fino a poco tempo fa convinto che mercato, crescita economica e democrazia non potessero che andare assieme e che quindi la Cina non avesse una proposta geopolitica attraente.
Ora, invece, si scopre che il flusso di denaro in uscita da Pechino crea ammiratori anche ideologici: in Africa ma anche in Sudamerica, dove pure gli investimenti cinesi crescono. «Dalla Baia di San Francisco — dice a “la Lettura” Jock O’Connell, consulente per il commercio internazionale del Center for International Trade Development dello Stato della California — lo vediamo bene, l’espansionismo cinese nell’America Latina. C’è l’idea di aprire un nuovo canale in Centroamerica, in Nicaragua, in concorrenza con quello di Panama, un progetto da 20 miliardi di dollari sostenuto dai cinesi. Che finanziano anche la ferrovia tra Brasile e Cile, che sostengono progetti in Venezuela». Se il confronto tra Stati Uniti e Cina sarà una delle maggiori caratteristiche del XXI secolo, questi, in Africa e America del Sud, sono probabilmente i primi segnali di competizione per il controllo di interessi commerciali e di sfere di influenza.
Che la Cina voglia estendere la propria egemonia in Asia — a cominciare dal Mare Cinese meridionale che è una via strategica per i suoi scambi (come i Caraibi lo furono per gli Stati Uniti, secondo l’analista americano di politica internazionale Robert Kaplan) — è evidente dalle sue iniziative recenti di controllo aereo e territoriali sulla zona. Ambizioni che preoccupano non poco i Paesi che si affacciano sullo stesso mare — Vietnam, Malaysia, Indonesia, Filippine, Singapore — e che non hanno intenzione di finire nella sua sfera di influenza; ambizioni che sollevano da tempo anche l’allarme di Washington, dove l’idea di essere emarginati in Asia è ritenuta improponibile (nonostante il cosiddetto Pivot asiatico di Obama non stia facendo faville). Ma legami stretti Pechino li vuole certamente avere con i Paesi dell’Africa e dell’America Latina: per le loro risorse e per i loro mercati. Dunque, una zolla cinese forte e sicura in Asia. Con proiezioni economiche e politiche (ma anche di terreni coltivabili comprati sul mercato) nell’emisfero meridionale.
Il confronto Cina-America è la grande sfida globale: non è però l’unico movimento delle zolle geopolitiche del pianeta. La Russia, che ha affossato la teoria dei panini di Friedman in Crimea, è governata da una cricca di affaristi poco prevedibili. Il presidente Putin, però, ha ambizioni geopolitiche di grande respiro: la ricostituzione attorno alla Russia di un ordine post-sovietico che al momento si può definire, nelle intenzioni, almeno pre-imperiale. La riconquista dell’egemonia politica sull’Ucraina è il primo e più importante obiettivo, quello che nelle intenzioni del Cremlino dovrebbe tracciare la strada e galvanizzare forze in altre regioni confinanti con la madre Russia. Un blocco eurasiatico che in qualche modo ricalchi i confini dell’Unione Sovietica è l’obiettivo finale. Con la Georgia il lavoro è stato mezzo fatto dal 2008. Moldova (dove parte del territorio nazionale è già occupato dall’autoproclamato Stato russofono di Transdnistria) e Bielorussia sono nel mirino. E gli sviluppi politici negli «-stan» dell’Asia centrale indicano che il modello non democratico e autoritario praticato da Putin sta facendosi strada: in un rapporto di giugno, l’organizzazione che studia l’andamento della democrazia nel mondo, Freedom House, ha calcolato che l’influenza di Mosca sta avendo effetti devastanti nella regione. «Gli eventi del 2013 mostrano il regime russo come un modello per altri leader autoritari», sostiene Sylvana Habdank-Kołaczkowska, direttrice del progetto di studio sui Paesi dell’Asia centrale (Azerbaigian, Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan). «Dieci anni fa — aggiunge — una persona su cinque in Eurasia viveva sotto un potere autoritario. Oggi, sono quasi quattro su cinque e la tendenza sta accelerando». È la zolla dei nuovi zar.
Nel Medio Oriente, ci sono due grandi forze al lavoro per riempire il vuoto lasciato dall’America: l’Iran sciita, con obiettivi di potenza regionale che si estendono alla Siria e alla Palestina; e l’Islam sunnita radicale, che sta tentando di instaurare califfati in Iraq e Libia e, tra le altre cose, vorrebbe fare crollare il regime saudita nella penisola arabica. È una zolla violenta e disperata, al momento spaccata a metà, che trova alimento nella ormai secolare stagnazione economica, nella disoccupazione e nella negazione dei diritti democratici. E che costituisce un elemento di destabilizzazione per l’Occidente, ma anche per Pechino e per Mosca.
Infine, c’è il subcontinente indiano. Oggi Delhi non ha grandi ambizioni egemoniche, i suoi problemi sono soprattutto domestici. Ma il nuovo primo ministro Narendra Modi dà una grande importanza alla politica di vicinato: è stato eletto a maggio e ha già visitato Bhutan e Nepal, sta per andare nello Sri Lanka, programma buone relazioni con il Pakistan e il Bangladesh. Non è una parte di pianeta che altri possano pensare di annettere, è una zolla autonoma con propaggini nell’importante Oceano Indiano e sulla sua evoluzione i punti di domanda sono ancora molti.
Qualcosa del genere era già successo un secolo fa: nel 1914 la prima globalizzazione arrivò a una brusca frenata e alla guerra. Oggi, la ritirata è meno brusca, le guerre sono in parte mascherate da commerci e attacchi cibernetici, ma le forze che puntano a frammentare la crosta geopolitica della Terra sono tornate in campo. Era meglio, molto meglio, un hamburger da McDonald’s.
Twitter@danilotaino
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Danilo Taino
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