Poi ci sono quelli che, invece, non sono mai nati. Le loro madri hanno scelto di abortire. Una decisione straziante, per evitare che i neonati venissero al mondo in condizioni fisiche già pesantemente compromesse. Infine ci sono gravidanze che si sono interrotte da sole, dopo pochi mesi di gestazione. Lasciando nei genitori un grande vuoto e mille domande.
L’uranio impoverito continua la sua strage silenziosa. E' di pochi giorni fa la notizia della morte del maresciallo incursore dell'Aeronautica Gianluca Danise, che nel 2003 a Nassiriya ricompose i corpi dei suoi colleghi uccisi da un attentato terroristico, stroncato da un tumore alla rinofaringe e abbandonato dalle istituzioni - come lui stesso ha denunciato - nei lunghi anni di malattia.
Ma le vittime non si contano soltanto fra i nostri militari di ritorno dalle missioni all’estero – che ancora oggi a distanza di vent’anni continuano ad ammalarsi di tumori e leucemie – ma anche fra i loro figli. La lista dei bambini venuti al mondo conmalformazioni e quella degli aborti terapeutici o spontanei continua a salire. Quantificarli con precisione è quasi impossibile, ma secondo le associazioni che da anni si battono per denunciare le conseguenze dei metalli pesanti sui soldati italiani si parla ormai di diverse decine di casi dichiarati.
Le chiamano “vittime terze”, perché le loro vite sono state pregiudicate e danneggiate indirettamente dalle esposizioni dei loro genitori. Fra questi ci sono anche figli di civili, che si sono ritrovati a vivere in prossimità di luoghi contaminati da uranio, torio, gas radon in aree dove si sperimentano gli armamenti, come Salto di Quirra, sede di un poligono interforze a disposizione della Nato.
A tutti gli effetti, si tratta di vittime invisibili. Per la prima volta, però, a occuparsi dei civili sarà la commissione d’inchiesta della Camera (promossa da Sel e Movimento 5 Stelle) incaricata di far luce sui mancati risarcimenti alle vittime dell’uranio, che sta cercando di partire fra mille intoppi e che in questi giorni sta tentando di mettere insieme i nomi delle persone coinvolte. Con un occhio di riguardo ai paesi sardi di Escalaplano, Capo Teulada e Perdarsefogu, che si trovano a pochi passi dai poligoni.
Ma la strada è tutta in salita. Fra i soldati c’è infatti chi è ancora in servizio e, temendo ritorsioni, preferisce non denunciare. E poi c’è chi semplicemente prova vergogna, e non vuole che la sua storia venga alla luce. Più spesso il problema è burocratico. Le anomalie genetiche non sono state denunciate alla nascita e quindi nelle statistiche sanitarie e nei registri della Asl praticamente non esistono. Tantomeno esistono per i tribunali, che non hanno fatto partire alcuna inchiesta.
Però le storie sono moltissime. E alcune delle vittime solo adesso trovano il coraggio di parlare in forma rigorosamente anonima. E’ in questi mesi, infatti, che si deciderà tutto. E solo se quest’ultima commissione d’inchiesta riuscirà a provare un nesso di causalità fra le anomalie genetiche dei bambini e le esposizioni da uranio dei loro genitori ci sarà possibilità di avere giustizia e un legittimo risarcimento economico.
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IMPASSE BUROCRATICA
Ci ha provato, per esempio, S.I., figlia di un militare in forza al poligono di Teulada. “Per ben nove anni – è il resoconto della donna contenuto in una missiva destinata al ministero della Difesa – sono stata una residente del dovere, perché nel poligono ha prestato servizio per molto tempo mio padre, maresciallo dell’Esercito”. “Mi sono ammalata di due gravi malattie, il morbo di Basedow e una forma di sclerosi – spiega – e ho avuto un bambino nato con grossi problemi genetici, che purtroppo di recente è deceduto”.
Secondo la donna – assistita dall’associazione Anavafaf – a provocare le sue malattie e la disabilità del figlio sarebbe stata la prolungata esposizione a nanoparticelle di metalli pesanti. Non solo uranio impoverito ma anche radiazioni di torio, “perché nel poligono sono stati ampiamente utilizzati e sperimentati i missili Milan che contengono, appunto, torio”.
La sua casa sorgeva vicino a un territorio che oggi viene considerato “non più bonificabile e permanentemente interdetto alle abitazioni”. Nonostante questo, però, le sue richieste di risarcimento finora sono state sempre ignorate. E non perché non ci fosse un nesso fra la sua malattia e quella del figlio, ma per semplici intoppi burocratici. “Nonostante fosse chiaro a tutti che io ero una comune cittadina, il mio caso è stato preso in mano dal Comitato Cause di Servizio della Difesa, ovvero l’ufficio che si occupa dei militari, che poi mi ha risposto dicendo che non poteva occuparsi di me, in quanto non militare”.
Una situazione kafkiana, che finora non ha trovato soluzione. E che lascia nella donna un forte amaro in bocca: “Oltre ad aver perso mio figlio e ad aver pagato le spese delle cure di tasca nostra, mi sono trovata a dover subire un atteggiamento di diffidenza e sospetto: hanno persino affidato ai carabinieri locali un’indagine per accertare a quale distanza si trovasse il poligono rispetto all’alloggio nel quale risiedevo, nonostante fosse noto a tutti dove si trovassero le abitazioni per il personale di gestione del poligono”. “Credo che un minimo di rispetto fosse dovuto verso chi, con grandi rischi, è stato al servizio del Paese e verso chi, non facendo parte del corpo militare, non poteva nemmeno chiedere l’adozione di misure protettive, come semplici mascherine, per evitare di respirare quel veleno”, è l’amara conclusione della donna nella sua lettera al Ministero.
Interpellato da l'Espresso (in data primo dicembre 2015, ndr) ,fino a oggi il ministero della Difesa non ha risposto alle nostre domande che erano state poste per fornire una corretta ed equilibrata esposizione dei fatti.
TUMORI INFANTILI
E nessun interesse da parte delle istituzioni - denunciano le associazioni - sembrerebbe esserci stato verso quei genitori che hanno visto, misteriosamente, i figli morire a causa di tumori infantili a poche settimane o addirittura a poche ore dal parto, alcuni di loro nati senza parte del cervello. Casi clinici inspiegabili, capitati fra persone senza precedenti simili nella loro storia familiare. A rompere un dolorosissimo silenzio lungo vent’anni c’è, per esempio, un capitano dell’Aeronautica che oggi chiede di sapere perché suo figlio, concepito dopo sei anni di servizio al poligono interforze di Salto di Quirra, sia nato con un tumore al rene. Per quel bambino non c’è stato scampo: è morto 30 giorni dopo essere venuto al mondo.
Gravi malformazioni sono state registrate alla nascita anche nel figlio di Vincenzo Z., maresciallo dell’Esercito che ha prestato servizio in Bosnia nei primi anni Duemila e che ha effettuato numerose esercitazioni a Capo Teulada.
Affetto da una grave forma di idrocefalia anche il bambino diE.D., un ex soldato reduce da missioni nei Balcani, che oggi chiede di conoscere la verità. Mentre una lunga lista di aborti (terapeutici e non) è stata registrata fra le mogli dei soldati che, nei Balcani e in Kosovo, erano addetti alle bonifiche del terreno dove erano stati esplosi proiettili all’uranio impoverito. Raccontano oggi alcuni di loro: “I nostri superiori erano stati molto chiari: ci avevano consigliato di non fare figli per almeno tre anni dalla fine della missione all’estero”. “Una testimonianza inquietante – conferma l’ammiraglio Falco Accame a capo dell’associazione Anavafaf – che emerse, riferita dagli onorevoli Pisa e Angioni, anche nel corso dell’audizione del generale Michele Donvito alla commissione Difesa della Camera il 29 giugno del 2004”.
“L’emergenza uranio non è finita e le conseguenze continuiamo a pagarle, visto che ancora oggi riceviamo lettere disperate di genitori con figli portatori di anomalie genetiche – spiega Accame – Queste persone meritano, una volta per tutte, che sia data loro una risposta”.
“NASCONDETELI IN CASA”
Chi è in grado di spiegare questa situazione in tutta la sua cruda semplicità è Mariella Cao, battagliera fondatrice delcomitato sardo Gettiamo le Basi, che da anni lotta perché l’opinione pubblica sia informata su quello che succede attorno ai poligoni di tiro della Sardegna.
“I casi sono molto più numerosi di quelli che sono stati raccontati finora – è la premessa della donna – solo che da parte dei genitori di questi bambini c’è sempre stata una forte reticenza a parlare, dettata soprattutto dalla paura di subire ritorsioni o addirittura di perdere il proprio impiego nell’Esercito”. E non solo da parte dei militari, visto che l’eventuale chiusura di una base interforze porterebbe alla perdita di lavoro anche per centinaia di civili.
Nel paese di Escalaplano, per esempio, a una manciata di chilometri dal poligono di Quirra, dove in 2.600 abitanti nei primi anni Duemila si è raggiunto un picco di 14 bambini con gravissime malformazioni genetiche, la regola ufficiale era quella di tacere. Qualsiasi cosa accadesse. E dunque, se i casi non venivano denunciati negli ospedali, era come se non fossero mai esistiti. Un copione che si è ripetuto anche nei comuni di Jerzu, Ballao e Tertenia.
“Alle mamme di questi bambini veniva detto senza tanti giri di parole: nascondeteli in casa”, racconta oggi Mariella Cao. E così loro, un po’ per paura un po’ per vergona, eseguivano.
“Chi non ha trovato il coraggio di parlare, o si è ostinato a sostenere che le anomalie genetiche fossero soltanto un caso, non è però da biasimare – riflette la fondatrice di Gettiamo le Basi – immaginate cosa significa, per la madre di un bambino che sta morendo, prendere coscienza che la malattia di suo figlio non è dovuta a una coincidenza o a una tremenda sfortuna, ma a dei responsabili in carne e ossa, che guadagnano su questa situazione. Rendersene conto può portare alla disperazione. O alla follia”.
Non hanno taciuto, ma hanno gridato tutta la loro rabbia e il loro dolore, invece, la mamma di Maria Grazia (nata con malformazioni evidenti alla testa e morta due anni fa, a 25 anni) e il fotografo Stefano Artitzu, la cui figlia è nata senza le dita della mano destra.
Ad un certo punto Artitzu ha anche fondato un comitato composto da padri e madri di bambini nati con anomalie genetiche, con l’obiettivo di trovare informazioni e chiedere giustizia. “Poi però ci siamo sciolti, perché era come combattere contro i mulini a vento una battaglia troppo dolorosa, dove oltre alle difficoltà di dover lottare ogni giorno dovevamo subire maldicenze ed esclusione sociale”, racconta.
Una situazione che conosce bene anche Mauro Pili, ex Presidente della Regione Sardegna, oggi deputato alla Camera e componente della nuova commissione d’inchiesta che ha appena aperto i lavori: “Già nel 2002 fu chiesto alla popolazione civile che abitava nei pressi di Salto di Quirra di sottoporsi a uno screening genetico, ma solamente una piccolissima parte accettò”. “Gli interessi in gioco solo altissimi – prosegue il politico sardo - chi indaga trova sempre il freno a mano tirato. E la commissione ancora oggi, dopo sei mesi, sta carcando di partire avvolta da un silenzio imbarazzante”.
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