Dalla rivista americana Jacobin pubblichiamo la traduzione di un’intervista a David Harvey sul neoliberismo.
Undici anni fa, David Harvey ha pubblicato una Breve storia neoliberismo, ormai uno dei libri più citati in materia. Gli anni trascorsi da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che a loro volta spesso hanno come bersaglio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea. Cornel West parla del movimento Black Lives Matter come “un atto d’accusa nei confronti del potere neoliberista“; l’ultimo Hugo Chávez definì il neoliberismo un “cammino per l’inferno“; e i leader sindacali stanno sempre più utilizzando il termine per descrivere il contesto più ampio nel quale si situano le lotte nei luoghi di lavoro. Anche la grande stampa ha fatto proprio il termine, se non altro per sostenere che il neoliberismo in realtà non esiste.
Ma di cosa, esattamente, stiamo parlando quando parliamo di neoliberismo? Si tratta di un bersaglio utile per i socialisti? E come è cambiato dal momento della sua genesi alla fine del ventesimo secolo?
Bjarke Skærlund Risager, dottorando presso il Dipartimento di Filosofia e Storia delle Idee alla Aarhus University, si è seduto con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra debba ancora porsi seriamente il compito di mettere fine al capitalismo.
Il neoliberismo è un termine oggi largamente usato. Tuttavia, spesso non è chiaro a cosa la gente si riferisce quando lo utilizza. Nel suo utilizzo più sistematico potrebbe riferirsi a una teoria, a un insieme di idee, a una strategia politica, o a un periodo storico. Potresti cominciare spiegando in che maniera tu intendi il neoliberismo?
Ho sempre trattato neoliberismo come un progetto politico messo in atto dalla classe capitalista delle grandi imprese che si sentiva minacciata fortemente a livello politico ed economico, verso la fine degli anni ’60 e gli anni ’70. Volevano disperatamente un progetto politico che potesse arginare la forza dei lavoratori.
Per molti aspetti il progetto era un progetto controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che, a quel tempo, erano movimenti rivoluzionari in gran parte del mondo in via di sviluppo – Mozambico, Angola, Cina, ecc. – ma anche una crescente ondata di influenze comuniste in paesi come l’Italia e la Francia e, in misura minore, la minaccia di un revival in Spagna.
Anche negli Stati Uniti, i sindacati avevano prodotto un Congresso a maggioranza democratica che era abbastanza radicale nel suo orientamento. Nei primi anni ’70 essi, insieme ad altri movimenti sociali, costrinsero a un gran numero di riforme e iniziative riformiste che andavano contro gli interessi delle grandi aziende: l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, la Occupational Safety and Health Administration (agenzia federale per la salute e la sicurezza sul lavoro), le norme a protezione dei consumatori, e tutta una serie di cose rendevano più forte il lavoro ancor più di quanto non fosse stato forte prima.
Così in questa situazione vi era, in effetti, una minaccia globale per il potere della classe capitalista e quindi la domanda era: “Che fare?”. La classe dirigente non era onnisciente, ma comprendeva che c’erano una serie di fronti su cui dovevano lottare: il fronte ideologico, il fronte politico, e, soprattutto, dovevano lottare per frenare il potere dei lavoratori con ogni mezzo possibile. Da tutto questo emerse un progetto politico che chiamerei neoliberismo.
Per molti aspetti il progetto era un progetto controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che, a quel tempo, erano movimenti rivoluzionari in gran parte del mondo in via di sviluppo – Mozambico, Angola, Cina, ecc. – ma anche una crescente ondata di influenze comuniste in paesi come l’Italia e la Francia e, in misura minore, la minaccia di un revival in Spagna.
Anche negli Stati Uniti, i sindacati avevano prodotto un Congresso a maggioranza democratica che era abbastanza radicale nel suo orientamento. Nei primi anni ’70 essi, insieme ad altri movimenti sociali, costrinsero a un gran numero di riforme e iniziative riformiste che andavano contro gli interessi delle grandi aziende: l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, la Occupational Safety and Health Administration (agenzia federale per la salute e la sicurezza sul lavoro), le norme a protezione dei consumatori, e tutta una serie di cose rendevano più forte il lavoro ancor più di quanto non fosse stato forte prima.
Così in questa situazione vi era, in effetti, una minaccia globale per il potere della classe capitalista e quindi la domanda era: “Che fare?”. La classe dirigente non era onnisciente, ma comprendeva che c’erano una serie di fronti su cui dovevano lottare: il fronte ideologico, il fronte politico, e, soprattutto, dovevano lottare per frenare il potere dei lavoratori con ogni mezzo possibile. Da tutto questo emerse un progetto politico che chiamerei neoliberismo.
Ci puoi parlare un po’ dei fronti ideologico e politico e degli attacchi alla classe lavoratrice?
Il fronte ideologico si concretizzò nel seguire il consiglio di un tale che si chiamava Lewis Powell. Aveva scritto un memorandum dicendo che si stava esagerando, che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Il memorandum contribuì a mobilitare la Camera di Commercio e la Business Roundtable. Anche le idee erano importanti per il fronte ideologico. Il giudizio in quel momento era che le università erano impossibili da organizzare perché il movimento degli studenti era troppo forte e le facoltà troppo di mentalità progressista (liberal nel testo), così loro misero su tutti questi think tanks come il Manhattan Institute, la Heritage Foundation, la Fondazione Ohlin. Questi think tank sostenevano le idee di Friedrich Hayek e Milton Friedman e la teoria economica dell’offerta (supply-side economics nel testo).
L’idea era quella di avere questi think tanks che fanno ricerca seria e alcuni di loro l’hanno fatta – per esempio, il National Bureau of Economic Research è un istituto di capitale privato che ha fatto estremamente buona e approfondita ricerca. Questa ricerca sarebbe poi pubblicata in modo indipendente e avrebbe influenzato la stampa e poco a poco avrebbe circondato e si sarebbe infiltrata nelle università.
Questo processo ha richiesto molto tempo. Penso che ora che abbiamo raggiunto un punto in cui non c’è più bisogno di una cosa come la Heritage Foundation. Le università sono state praticamente prese in consegna dai progetti neoliberisti che le circondano.
Per quanto riguarda il lavoro, la sfida era quella di mettere il lavoro domestico in competizione con lavoro globale. Una maniera è stata quella di aprirsi all’immigrazione. Negli anni ’60, per esempio, i tedeschi importavano manodopera turca, i francesi manodopera magrebina , i britannici lavoratori dalle colonie. Ma questo creò tanta insoddisfazione e agitazione.
In alternativa scelsero l’altra strada – portare il capitale dove c’era manodopera con bassi livelli salariali . Ma per la globalizzazione del lavoro si dovevano ridurre le tariffe e rafforzare il capitale finanziario, perché il capitale finanziario è la forma più mobile di capitale. Così il capitale finanziario e cose del genere come le valute fluttuanti divennero fondamentali per arginare la classe lavoratrice.
Allo stesso tempo, i progetti ideologici di privatizzare e deregolamentare creavano disoccupazione. Così, la disoccupazione in casa e lo spostare le attività portando i posti di lavoro all’estero, e un terzo componente: il cambiamento tecnologico, la deindustrializzazione attraverso automazione e robotizzazione. Questa è stata la strategia per schiacciare la classe lavoratrice.
E’ stato un assalto ideologico, ma anche un attacco economico. Per me questo è stato il neoliberismo: è stato quel progetto politico, e penso che la borghesia o classe capitalista lo abbiano messo in atto poco a poco.
Non credo che hanno iniziato leggendo Hayek o qualcosaltro, penso che solo intuitivamente abbiano detto: “Dobbiamo schiacciare la classe lavoratrice, come lo facciamo?” E hanno trovato che c’era là fuori una teoria che legittimava queste scelte, che consentiva di promuovere quella cosa.
L’idea era quella di avere questi think tanks che fanno ricerca seria e alcuni di loro l’hanno fatta – per esempio, il National Bureau of Economic Research è un istituto di capitale privato che ha fatto estremamente buona e approfondita ricerca. Questa ricerca sarebbe poi pubblicata in modo indipendente e avrebbe influenzato la stampa e poco a poco avrebbe circondato e si sarebbe infiltrata nelle università.
Questo processo ha richiesto molto tempo. Penso che ora che abbiamo raggiunto un punto in cui non c’è più bisogno di una cosa come la Heritage Foundation. Le università sono state praticamente prese in consegna dai progetti neoliberisti che le circondano.
Per quanto riguarda il lavoro, la sfida era quella di mettere il lavoro domestico in competizione con lavoro globale. Una maniera è stata quella di aprirsi all’immigrazione. Negli anni ’60, per esempio, i tedeschi importavano manodopera turca, i francesi manodopera magrebina , i britannici lavoratori dalle colonie. Ma questo creò tanta insoddisfazione e agitazione.
In alternativa scelsero l’altra strada – portare il capitale dove c’era manodopera con bassi livelli salariali . Ma per la globalizzazione del lavoro si dovevano ridurre le tariffe e rafforzare il capitale finanziario, perché il capitale finanziario è la forma più mobile di capitale. Così il capitale finanziario e cose del genere come le valute fluttuanti divennero fondamentali per arginare la classe lavoratrice.
Allo stesso tempo, i progetti ideologici di privatizzare e deregolamentare creavano disoccupazione. Così, la disoccupazione in casa e lo spostare le attività portando i posti di lavoro all’estero, e un terzo componente: il cambiamento tecnologico, la deindustrializzazione attraverso automazione e robotizzazione. Questa è stata la strategia per schiacciare la classe lavoratrice.
E’ stato un assalto ideologico, ma anche un attacco economico. Per me questo è stato il neoliberismo: è stato quel progetto politico, e penso che la borghesia o classe capitalista lo abbiano messo in atto poco a poco.
Non credo che hanno iniziato leggendo Hayek o qualcosaltro, penso che solo intuitivamente abbiano detto: “Dobbiamo schiacciare la classe lavoratrice, come lo facciamo?” E hanno trovato che c’era là fuori una teoria che legittimava queste scelte, che consentiva di promuovere quella cosa.
Dalla pubblicazione di Breve storia del neoliberismo nel 2005 molto inchiostro è stato versato sul concetto. Sembra che ci siano due campi principali: gli studiosi che sono più interessati alla storia intellettuale del neoliberismo e persone il cui interesse risiede nel “neoliberismo realmente esistente”. Tu dove ti collochi?
C’è una tendenza nel campo delle scienze sociali, alla quale io tendo a resistere, a cercare una teoria con un singolo proiettile su qualcosa. Quindi c’è un’ala di persone che dicono che, beh, il neoliberismo è un’ideologia e così ne scrivono una storia idealistica.
Una versione di questo atteggiamento è l’argomentazione sulla governamentalità di Foucault che vede tendenze neoliberalizzanti già presenti nel XVIII secolo Ma se tu tratti il neoliberismo solo come un’idea o un insieme di pratiche limitate di governamentalità, troverai un sacco di precursori.
Ciò che scompare qui è il modo in cui la classe capitalista ha orchestrato i suoi sforzi nel corso degli anni ’70 e all’inizio degli ’80. Credo che sarebbe giusto dire che in quel momento – nel mondo di lingua inglese in ogni caso – la classe dei capitalisti divenne piuttosto unificata.
Loro convennero su un sacco di cose, come la necessità di una forza politica che davvero li rappresentasse. Così si arriva alla cattura del partito repubblicano, e a un tentativo di minare, in una certa misura, il Partito Democratico.
Dagli anni ’70 la Corte Suprema prese una serie di decisioni che hanno permesso alla classe dei capitalisti delle grandi aziende di comprare le elezioni più facilmente di quanto potesse in passato.
Ad esempio, guardate le riforme del finanziamento della campagna elettorale che trattarono i contributi alle campagne come una forma di libertà di parola. C’è una lunga tradizione negli Stati Uniti dei capitalisti che comprano le elezioni, ma ora è stata legalizzata piuttosto che essere sotto banco come la corruzione.
Nel complesso credo che questo periodo è stato definito da un ampio movimento su molti fronti, ideologici e politici. E l’unico modo in cui puoi spiegare quel vasto movimento è riconoscendo il grado relativamente elevato di solidarietà nella classe capitalista corporativa. Il capitale ha riorganizzato la sua potenza in un disperato tentativo di recuperare la sua ricchezza economica e la sua influenza, che era stata seriamente erosa dalla fine degli anni ’60 e negli anni ’70.
Una versione di questo atteggiamento è l’argomentazione sulla governamentalità di Foucault che vede tendenze neoliberalizzanti già presenti nel XVIII secolo Ma se tu tratti il neoliberismo solo come un’idea o un insieme di pratiche limitate di governamentalità, troverai un sacco di precursori.
Ciò che scompare qui è il modo in cui la classe capitalista ha orchestrato i suoi sforzi nel corso degli anni ’70 e all’inizio degli ’80. Credo che sarebbe giusto dire che in quel momento – nel mondo di lingua inglese in ogni caso – la classe dei capitalisti divenne piuttosto unificata.
Loro convennero su un sacco di cose, come la necessità di una forza politica che davvero li rappresentasse. Così si arriva alla cattura del partito repubblicano, e a un tentativo di minare, in una certa misura, il Partito Democratico.
Dagli anni ’70 la Corte Suprema prese una serie di decisioni che hanno permesso alla classe dei capitalisti delle grandi aziende di comprare le elezioni più facilmente di quanto potesse in passato.
Ad esempio, guardate le riforme del finanziamento della campagna elettorale che trattarono i contributi alle campagne come una forma di libertà di parola. C’è una lunga tradizione negli Stati Uniti dei capitalisti che comprano le elezioni, ma ora è stata legalizzata piuttosto che essere sotto banco come la corruzione.
Nel complesso credo che questo periodo è stato definito da un ampio movimento su molti fronti, ideologici e politici. E l’unico modo in cui puoi spiegare quel vasto movimento è riconoscendo il grado relativamente elevato di solidarietà nella classe capitalista corporativa. Il capitale ha riorganizzato la sua potenza in un disperato tentativo di recuperare la sua ricchezza economica e la sua influenza, che era stata seriamente erosa dalla fine degli anni ’60 e negli anni ’70.
Ci sono state numerose crisi dal 2007. In che modo la storia e il concetto del neoliberismo ci aiutano a comprenderle?
Ci sono stati pochissime crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati alcuni momenti gravi, ma non grandi crisi. La svolta verso la politica neoliberista si è verificata nel bel mezzo di una crisi negli anni ’70, e l’intero sistema è entrato in una serie di crisi da allora. E, naturalmente, le crisi producono le condizioni di crisi future.
Nel 1982-1985 ci fu una crisi del debito in Messico, Brasile, Ecuador, e praticamente tutti i paesi in via di sviluppo, tra cui la Polonia. Nel 1987-88 ci fu una grande crisi degli istituti di credito e risparmio negli Stati Uniti. C’era una vasta crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.
Poi, naturalmente, abbiamo Indonesia e Sud-Est asiatico nel 1997-98, poi la crisi si sposta in Russia, poi in Brasile, e colpisce l’Argentina nel 2001-2.
E ci sono stati problemi negli Stati Uniti nel 2001, che hanno affrontato prendendo soldi dal mercato azionario e riversandoli nel mercato immobiliare. Nel 2007-8 il mercato immobiliare statunitense implose, così si è avuta una crisi qui.
È possibile guardare una mappa del mondo e guardare le tendenza alla crisi che si muovono intorno. Ragionare sul neoliberismo è utile per comprendere queste tendenze.
Una delle grandi mosse di neoliberalizzazione è stata quella di buttare fuori tutti i keynesiani dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale nel 1982 – una ripulitura totale di tutti i consiglieri economici che avevano punti di vista keynesiani.
Furono sostituiti dai teorici neoclassici dell’offerta e la prima cosa che hanno fatto è stata decidere che da allora in poi il Fondo monetario internazionale dovrebbe seguire una politica di aggiustamento strutturale ogni volta che c’è una crisi in qualsiasi luogo.
Nel 1982, di certo, c’è stata una crisi del debito in Messico. Il FMI ha detto, “Vi salveremo .” In realtà, quello che stavano facendo è stato il salvataggio delle banche d’investimento di New York e l’attuazione di una politica di austerità.
La popolazione del Messico soffrì qualcosa come una perdita del 25 per cento del suo livello di vita nei quattro anni dopo il 1982 a seguito delle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.
Da allora il Messico ha avuto circa quattro adeguamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno avuto più di uno. Questa è diventata una pratica standard.
Cosa stanno facendo alla Grecia ora? E’ quasi una copia di quello che hanno fatto al Messico nel 1982, solo con più competenza. Questo è anche quello che è successo negli Stati Uniti nel 2007-8. Loro hanno salvato le banche e hanno fatto pagare alla gente attraverso una politica di austerità.
Nel 1982-1985 ci fu una crisi del debito in Messico, Brasile, Ecuador, e praticamente tutti i paesi in via di sviluppo, tra cui la Polonia. Nel 1987-88 ci fu una grande crisi degli istituti di credito e risparmio negli Stati Uniti. C’era una vasta crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.
Poi, naturalmente, abbiamo Indonesia e Sud-Est asiatico nel 1997-98, poi la crisi si sposta in Russia, poi in Brasile, e colpisce l’Argentina nel 2001-2.
E ci sono stati problemi negli Stati Uniti nel 2001, che hanno affrontato prendendo soldi dal mercato azionario e riversandoli nel mercato immobiliare. Nel 2007-8 il mercato immobiliare statunitense implose, così si è avuta una crisi qui.
È possibile guardare una mappa del mondo e guardare le tendenza alla crisi che si muovono intorno. Ragionare sul neoliberismo è utile per comprendere queste tendenze.
Una delle grandi mosse di neoliberalizzazione è stata quella di buttare fuori tutti i keynesiani dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale nel 1982 – una ripulitura totale di tutti i consiglieri economici che avevano punti di vista keynesiani.
Furono sostituiti dai teorici neoclassici dell’offerta e la prima cosa che hanno fatto è stata decidere che da allora in poi il Fondo monetario internazionale dovrebbe seguire una politica di aggiustamento strutturale ogni volta che c’è una crisi in qualsiasi luogo.
Nel 1982, di certo, c’è stata una crisi del debito in Messico. Il FMI ha detto, “Vi salveremo .” In realtà, quello che stavano facendo è stato il salvataggio delle banche d’investimento di New York e l’attuazione di una politica di austerità.
La popolazione del Messico soffrì qualcosa come una perdita del 25 per cento del suo livello di vita nei quattro anni dopo il 1982 a seguito delle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.
Da allora il Messico ha avuto circa quattro adeguamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno avuto più di uno. Questa è diventata una pratica standard.
Cosa stanno facendo alla Grecia ora? E’ quasi una copia di quello che hanno fatto al Messico nel 1982, solo con più competenza. Questo è anche quello che è successo negli Stati Uniti nel 2007-8. Loro hanno salvato le banche e hanno fatto pagare alla gente attraverso una politica di austerità.
C’è qualcosa che riguarda le recenti crisi e il modo in cui sono state gestite dalle classi dirigenti che ti hanno fatto ripensare la tua teoria del neoliberismo?
Beh, non credo che la solidarietà di classe capitalistica oggi sia quella che era. Geopoliticamente, gli Stati Uniti non sono in grado di prendere l’iniziativa a livello mondiale come lo erano negli anni ’70.
Penso che stiamo assistendo a una regionalizzazione delle strutture di potere globale all’interno del sistema degli stati – regionali egemoni come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina, la Cina in Asia orientale.
Ovviamente, gli Stati Uniti hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire: “Dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire: “Noi non lo faremo.” Questo non sarebbe successo negli anni ’70.
Così la situazione geopolitica è diventata più regionalizzata, c’è più autonomia. Penso che sia in parte il risultato della fine della guerra fredda. Paesi come la Germania non devono più fare affidamento sugli Stati Uniti per la protezione.
Inoltre, quella che è stato chiamata la “nuova classe capitalistica” di Bill Gates, Amazon, e della Silicon Valley ha una diversa politica rispetto a quella tradizionale a base di petrolio ed energia.
Come risultato, essi tendono ad andare sulle proprie strade particolari, quindi c’è un sacco di rivalità tra sezioni diverse del capitale tra, diciamo, l’energia e la finanza, e tra l’energia e la gente della Silicon Valley, e così via. Ci sono gravi divisioni che sono evidenti su cose come il cambiamento climatico, per esempio.
L’altra cosa che penso sia cruciale è che la spinta neoliberista degli anni ’70 non è passata senza una forte resistenza. C’è stata massiccia resistenza da parte del movimento dei lavoratori, da parte dei partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma vorrei dire che entro la fine del 1980 la battaglia era perduta. Quindi, nella misura in cui la resistenza è scomparsa, il lavoro non ha il potere che una volta aveva, la solidarietà all’interno della classe dominante non è più necessaria per farla funzionare come tale.
Non devono mettersi insieme e fare qualcosa circa la lotta dal basso, perché non vi è più alcuna minaccia. Per la classe dirigente le cose stanno andando molto bene, così non hanno effettivamente bisogno di cambiare nulla.
Eppure, mentre la classe dei capitalisti se la cava molto bene, al capitalismo sta andando piuttosto male. I tassi di profitto hanno recuperato, ma i tassi di reinvestimento sono spaventosamente bassi, così un sacco di soldi non sono in circolazione nella produzione e stanno affluendo invece nell’accaparramento di terra (land-grabs) – e nell’acquisizione di asset.
Penso che stiamo assistendo a una regionalizzazione delle strutture di potere globale all’interno del sistema degli stati – regionali egemoni come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina, la Cina in Asia orientale.
Ovviamente, gli Stati Uniti hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire: “Dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire: “Noi non lo faremo.” Questo non sarebbe successo negli anni ’70.
Così la situazione geopolitica è diventata più regionalizzata, c’è più autonomia. Penso che sia in parte il risultato della fine della guerra fredda. Paesi come la Germania non devono più fare affidamento sugli Stati Uniti per la protezione.
Inoltre, quella che è stato chiamata la “nuova classe capitalistica” di Bill Gates, Amazon, e della Silicon Valley ha una diversa politica rispetto a quella tradizionale a base di petrolio ed energia.
Come risultato, essi tendono ad andare sulle proprie strade particolari, quindi c’è un sacco di rivalità tra sezioni diverse del capitale tra, diciamo, l’energia e la finanza, e tra l’energia e la gente della Silicon Valley, e così via. Ci sono gravi divisioni che sono evidenti su cose come il cambiamento climatico, per esempio.
L’altra cosa che penso sia cruciale è che la spinta neoliberista degli anni ’70 non è passata senza una forte resistenza. C’è stata massiccia resistenza da parte del movimento dei lavoratori, da parte dei partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma vorrei dire che entro la fine del 1980 la battaglia era perduta. Quindi, nella misura in cui la resistenza è scomparsa, il lavoro non ha il potere che una volta aveva, la solidarietà all’interno della classe dominante non è più necessaria per farla funzionare come tale.
Non devono mettersi insieme e fare qualcosa circa la lotta dal basso, perché non vi è più alcuna minaccia. Per la classe dirigente le cose stanno andando molto bene, così non hanno effettivamente bisogno di cambiare nulla.
Eppure, mentre la classe dei capitalisti se la cava molto bene, al capitalismo sta andando piuttosto male. I tassi di profitto hanno recuperato, ma i tassi di reinvestimento sono spaventosamente bassi, così un sacco di soldi non sono in circolazione nella produzione e stanno affluendo invece nell’accaparramento di terra (land-grabs) – e nell’acquisizione di asset.
Parliamo di più della resistenza. Nel tuo lavoro, tu sottolinei il paradosso evidente che l’attacco neoliberista è andato di pari passo con un declino nella lotta di classe – almeno nel Nord del mondo – a favore dei “nuovi movimenti sociali” per la libertà individuale. Potresti analizzare come pensi come il neoliberismo faccia sorgere certe forme di resistenza?
Ecco una proposizione su cui riflettere. Supponiamo che ogni modo di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea una modalità di opposizione come immagine speculare a se stesso?
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine speculare è stata un grande movimento sindacale centralizzato e partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo produttivo e l’andare verso l’accumulazione flessibile durante i tempi neoliberisti ha prodotto una sinistra che è anche, per molti versi, il suo specchio: in rete, decentrata, non gerarchica. Penso che questo sia molto interessante.
E in una certa misura l’immagine speculare rafforza quello che sta cercando di distruggere. In definitiva penso che il movimento sindacale di fatto sostenne il fordismo.
Credo che gran parte della sinistra in questo momento, essendo molto autonoma e anarchica, sta in realtà rafforzando il finale di partita del neoliberismo. A un sacco di persone di sinistra non piace sentire questa cosa.
Ma, naturalmente, la domanda sorge spontanea: c’è un modo per organizzare che non sia un’immagine speculare? Possiamo rompere quello specchio e trovare qualcos’altro, che non faccia il gioco del neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può avvenire in molti modi diversi. Nel mio lavoro sottolineo che il punto in cui si realizza il valore è anche un punto di tensione.
Il valore è prodotto nel processo lavorativo, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore si realizza nel mercato attraverso la vendita, e c’è un sacco di politica in questo.
Un sacco di resistenza all’accumulazione di capitale si verifica non solo nel punto di produzione, ma anche attraverso il consumo e la realizzazione di valore.
Prendete una fabbrica di auto: i grandi impianti erano soliti impiegare circa venticinquemila persone; ora ne impiegano cinquemila perché la tecnologia ha ridotto la necessità di lavoratori. Così sempre più lavoro viene spostato dalla sfera della produzione ed è sempre più spinto verso la vita urbana.
Il centro principale di malcontento all’interno della dinamica capitalista si sta sempre più spostando verso lotte sulla realizzazione del valore – sulla politica della vita quotidiana nella città.
I lavoratori, ovviamente, contano e ci sono molte questioni tra i lavoratori che sono cruciali. Se siamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli Stati Uniti, avremmo dovuto sostenere lo sciopero della Verizon, per esempio.
Ma in molte parti del mondo, le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate le grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: qualcosa come Gezi Park a Istanbul non era una lotta dei lavoratori, è stato il malcontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e i processi decisionali; ai moti nelle città brasiliane nel 2013, ancora una volta è stato il malcontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità, e lo_ spendere tutti quei soldi in grandi stadi quando non stai spendendo soldi per la costruzione di scuole, ospedali e alloggi a prezzi accessibili. Le rivolte che vediamo a Londra, Parigi, Stoccolma non riguardano il processo lavorativo: riguardano la politica della vita quotidiana.
Questa politica è piuttosto diversa dalla politica che esiste nel luogo della produzione. Sul luogo di produzione, è il capitale contro il lavoro. Le lotte per la qualità della vita urbana sono meno chiare in termini di configurazione di classe.
Una politica di classe chiara, che di solito deriva da una comprensione della produzione, diventa teoricamente sfocata nel mentre diventa più realistica. E’ una questione di classe ma non è una questione di classe in un senso classico.
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine speculare è stata un grande movimento sindacale centralizzato e partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo produttivo e l’andare verso l’accumulazione flessibile durante i tempi neoliberisti ha prodotto una sinistra che è anche, per molti versi, il suo specchio: in rete, decentrata, non gerarchica. Penso che questo sia molto interessante.
E in una certa misura l’immagine speculare rafforza quello che sta cercando di distruggere. In definitiva penso che il movimento sindacale di fatto sostenne il fordismo.
Credo che gran parte della sinistra in questo momento, essendo molto autonoma e anarchica, sta in realtà rafforzando il finale di partita del neoliberismo. A un sacco di persone di sinistra non piace sentire questa cosa.
Ma, naturalmente, la domanda sorge spontanea: c’è un modo per organizzare che non sia un’immagine speculare? Possiamo rompere quello specchio e trovare qualcos’altro, che non faccia il gioco del neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può avvenire in molti modi diversi. Nel mio lavoro sottolineo che il punto in cui si realizza il valore è anche un punto di tensione.
Il valore è prodotto nel processo lavorativo, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore si realizza nel mercato attraverso la vendita, e c’è un sacco di politica in questo.
Un sacco di resistenza all’accumulazione di capitale si verifica non solo nel punto di produzione, ma anche attraverso il consumo e la realizzazione di valore.
Prendete una fabbrica di auto: i grandi impianti erano soliti impiegare circa venticinquemila persone; ora ne impiegano cinquemila perché la tecnologia ha ridotto la necessità di lavoratori. Così sempre più lavoro viene spostato dalla sfera della produzione ed è sempre più spinto verso la vita urbana.
Il centro principale di malcontento all’interno della dinamica capitalista si sta sempre più spostando verso lotte sulla realizzazione del valore – sulla politica della vita quotidiana nella città.
I lavoratori, ovviamente, contano e ci sono molte questioni tra i lavoratori che sono cruciali. Se siamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli Stati Uniti, avremmo dovuto sostenere lo sciopero della Verizon, per esempio.
Ma in molte parti del mondo, le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate le grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: qualcosa come Gezi Park a Istanbul non era una lotta dei lavoratori, è stato il malcontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e i processi decisionali; ai moti nelle città brasiliane nel 2013, ancora una volta è stato il malcontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità, e lo_ spendere tutti quei soldi in grandi stadi quando non stai spendendo soldi per la costruzione di scuole, ospedali e alloggi a prezzi accessibili. Le rivolte che vediamo a Londra, Parigi, Stoccolma non riguardano il processo lavorativo: riguardano la politica della vita quotidiana.
Questa politica è piuttosto diversa dalla politica che esiste nel luogo della produzione. Sul luogo di produzione, è il capitale contro il lavoro. Le lotte per la qualità della vita urbana sono meno chiare in termini di configurazione di classe.
Una politica di classe chiara, che di solito deriva da una comprensione della produzione, diventa teoricamente sfocata nel mentre diventa più realistica. E’ una questione di classe ma non è una questione di classe in un senso classico.
Pensi che si parla troppo di neoliberismo e troppo poco di capitalismo? Quando è opportuno utilizzare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi legati nel confonderli?
Molti progressisti (liberals nel testo) dicono che il neoliberismo ha esagerato in termini di disparità di reddito, che tutta questa la privatizzazione è esagerata, che ci sono un sacco di beni comuni che dobbiamo proteggere, come l’ambiente.
Ci sono anche una varietà di modi per parlare di capitalismo, come ad esempio l’economia della condivisione, che risulta essere altamente capitalizzata e altamente sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo etico, che si traduce semplicemente nell’essere ragionevolmente onesti invece di rubare. Per cui vi è la possibilità nella mente di alcune persone di una sorta di riforma dell’ordine neoliberista in qualche altra forma di capitalismo.
Penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste attualmente. Ma non di molto.
I problemi fondamentali sono in realtà così profondi in questo momento che non c’è alcun modo per apprestarci ad andare da qualche parte senza un forte movimento anticapitalista. Quindi vorrei mettere le cose in termini anticapitalisti, piuttosto che metterle in termini anti-neoliberisti.
E penso che il pericolo è, quando ascolto la gente parlare di anti-neoliberismo, che non ha senso che il capitalismo è di per sé, in qualunque forma, un problema.
La maggior parte dell’anti-neoliberismo non riesce ad affrontare i macro-problemi della crescita infinita composta – ecologica, politica e dei problemi economici. Quindi vorrei piuttosto parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.
Ci sono anche una varietà di modi per parlare di capitalismo, come ad esempio l’economia della condivisione, che risulta essere altamente capitalizzata e altamente sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo etico, che si traduce semplicemente nell’essere ragionevolmente onesti invece di rubare. Per cui vi è la possibilità nella mente di alcune persone di una sorta di riforma dell’ordine neoliberista in qualche altra forma di capitalismo.
Penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste attualmente. Ma non di molto.
I problemi fondamentali sono in realtà così profondi in questo momento che non c’è alcun modo per apprestarci ad andare da qualche parte senza un forte movimento anticapitalista. Quindi vorrei mettere le cose in termini anticapitalisti, piuttosto che metterle in termini anti-neoliberisti.
E penso che il pericolo è, quando ascolto la gente parlare di anti-neoliberismo, che non ha senso che il capitalismo è di per sé, in qualunque forma, un problema.
La maggior parte dell’anti-neoliberismo non riesce ad affrontare i macro-problemi della crescita infinita composta – ecologica, politica e dei problemi economici. Quindi vorrei piuttosto parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.
articolo originale: Neoliberalism Is a Political Project
traduzione di Maurizio Acerbo
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David Harvey (1935) è un geografo, sociologo e politologo inglese. Si occupa di geografia politica e, dal 2001, è professore di Antropologia alla Graduate School della City University di New York. Precedentemente è stato professore di Geografia presso le università di Oxford e Johns Hopkins. L’“Independent” ha citato il suo libro La crisi della modernità come una delle cinquanta opere più importanti del secondo dopoguerra. Nel 1995 gli è stata conferita la Patron’s Medal della Royal Geographical Society e nel 2007 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Giustizia sociale e città (Feltrinelli, 1978), L’esperienza urbana (Il Saggiatore, 1998), La crisi della modernità (il Saggiatore, 2002), La guerra perpetua (il Saggiatore, 2006), Breve storia del neoliberalismo (il Saggiatore, 2007), Neoliberismo e potere di classe (Allemandi, 2008), L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli, 2011), Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2012), Città ribelli (il Saggiatore, 2013), Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, 2014), Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx (La Casa Usher, 2014). Il sito: davidharvey.org
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