lunedì 12 giugno 2017

PRECARIZZAZIONE E FINE DEL CONTRATTO SOCIALE. M. PACINI, Ormai siamo solo cittadini 'a chiamata', L'ESPRESSO, 8 giugno 2017

Siamo a fine contratto. Lo siamo da tempo, e il rinnovo non è in vista. Una società di interinali, cittadini “a chiamata”. Pare che a questo si sia ridotta la democrazia, come ci spiegano da tempo i teorici della post-democrazia: nella chiamata alle urne si esaurisce il nostro “job” di cittadini. Una piccola performance psicopolitica che si compie nello spazio di una campagna elettorale e si chiude alla chiusura dei seggi. Anche per chi (sempre di più) non ci va.



Poi tutti a casa. Con l’illusione che la nostra partecipazione continui, la nostra voce ci renda cittadini attivi, incisivi e decisivi “world wide”, appena azioniamo le nostre protesi digitali.

Invece la storia segna il passo, non si svincola dalle sue ormai troppo evidenti storture (aumento delle disuguaglianze, nuove generazioni con un futuro al buio, deterioramento dell’ambiente che procede alla faccia delle voci più autorevoli della scienza, brusco risveglio dal sogno di società multiculturali), incurante del fatto che la fetta più grossa del cosiddetto popolo, comunque abbia votato, vorrebbe vederle almeno in parte raddrizzate.

Non si vede ancora via d’uscita, avvertiva Zygmunt Bauman in “Stato di crisi”, uno dei suoi ultimi libri, scritto  con Carlo Bordoni: il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (decidere cosa sia meglio fare) si sono separati. E dunque non si vede nemmeno la via di entrata in una nuova fase in cui la politica torni a essere il luogo dove gli interessi, le idee, i modelli sociali ed economici si incontrano e si scontrano, per ricomporsi nell’azione di uno Stato che non si limiti a gestire un vero o presunto, ma sicuramente perenne, “stato di emergenza”. Forse non si vede per la semplice ragione che l’architrave su cui si sono rette le società politiche della modernità - il contratto sociale - ha ceduto. È finito.

E come in un giallo costruito  sull’enigma della stanza  chiusa, l’interrogativo principale  non è qual è il movente o chi è il colpevole, ma come è stato commesso il delitto. O meglio: come è stato possibile che l’epoca salutata come quella della disintermediazione, della partecipazione diretta alla vita della polis e delle sue scelte per il bene comune, si caratterizzi invece per l’immobilismo, l’incapacità di produrre un nuovo pensiero e una nuova prassi politica con un respiro un po’ più lungo di un “occupy”.

Il “come” appunto. Come è avvenuto? La storia è in parte quella nota della vaporizzazione dei corpi intermedi, del declino della rappresentanza che diventa  il massimo della delega. Come conseguenza dell’assenza o dell’estrema debolezza al  tavolo della contrattazione di uno dei contraenti, quello più debole: nientemeno che il “popolo sovrano”; svuotato dalla sovranità effettiva nel progressivo scollamento dalle istituzioni che dovrebbero veicolarne le istanze, la “volontà generale”. Che non ha più voce. Solo brusio e mugugno, paura, rabbia. O, quando va meglio, quel residuo di “resistenza” che lo porta a riassegnare un po’ svogliatamente (il presidente Macron è stato eletto da 4 francesi su 10, per dire) una delega a volti nuovi senza alcuna nuova idea, per gestire “lo stato di crisi” e cacciare i fantasmi del passato che si ripresentano sotto le sembianze di leader cosiddetti populisti.

I patti saltano, sono saltati uno dopo l’altro: nel lavoro, nella convivenza tra generazioni, tra culture. Anzi è l’idea stessa di contratto che è saltata. E vige uno “statalismo senza Stato”, avvertiva ancora Bauman. Cioè senza il luogo dove il Patto sociale si realizza.

Siamo soliti attribuire l’origine di tutto questo (almeno per il nucleo forte del contratto sociale moderno che si chiama giustizia distributiva) alla liberazione degli animal spirits propugnata negli anni Ottanta dai predicatori del pensiero unico neoliberista. Ma forse non basta. Perché quando le regole del gioco si rivelano palesemente mal funzionanti per un periodo sufficientemente lungo ci si rimette al tavolo per adottarne delle altre. Attraverso un patto: Il patto sociale. Che nella sua formulazione a noi più vicina ha come obiettivo non solo  una società il più possibile giusta nella distribuzione dei frutti della cooperazione, equa e “bene ordinata”, ma anche garante del pluralismo etico, religioso, attraverso un consenso su principi fondamentali che prescindano quanto possibile dalle convinzioni e credenze più profonde e pre-politiche. Si tratta di obiettivi largamente falliti in gran parte del mondo occidentale.

Sul fronte della giustizia sociale e dell’equità il fallimento è talmente evidente che pare superfluo qui ricordarlo. È sufficiente consultare uno dei moltissimi studi che documentano, numeri alla mano, l’allargamento della forbice sociale e la diminuzione della mobilità di classe che prefigura scenari quasi di casta. Complici politiche (attuate in larga misura da governi “progressisti”) in cui lo Stato si sottrae progressivamente dal  ruolo di riequilibratore nei rapporti tra capitale e lavoro per mitigarne la naturale asimmetria.

Lo stesso, o peggio, si può dire del patto generazionale, che in Italia è stato smantellato con un impegno di gran lunga maggiore che nel resto dei Paesi Ocse. Come ha documentato di recente uno studio della Fondazione Visentini, collocando il nostro Paese al penultimo posto (prima della Grecia) per equità intergenerazionale.
Ma c’è un altro aspetto che certifica la fine del contratto sociale, così come era stato concepito dall’ultimo grande pensatore (John Rawls)  di questa tradizione, che sembrava aver vinto la sfida teorica nella costruzione delle società politiche della modernità occidentale. Ed è un aspetto che investe potenzialmente in modo drammatico la vita sociale: la difficoltà (se non l’impossibilità) sempre più evidente di un consenso “per intersezione” attorno ad alcuni principi fondamentali, pur in presenza di un pluralismo di valori etici,  morali, religiosi. Quei valori che una società pluralista e multiculturale dovrebbe salvaguardare, facendoli interagire su un terreno comune fin dove è possibile, prima di escluderli dal tavolo della contrattazione dove si stabiliscono le regole e i vincoli fondamentali del patto. Quello spazio “neutro” sembra essere sparito. Non si vede (o si vede sempre meno)  alcun luogo dove possano “intersecarsi” i credo e le culture, per contrattare una convivenza giusta “a prescindere”.  Le implosioni identitarie sembrano averlo cancellato.

Ma il modo in cui il contratto sociale è morto va probabilmente cercato anche con uno sguardo che oltrepassi il perimetro della politica. C’è chi ha parlato di “società della stanchezza”; di “alienazione” dovuta all’accelerazione incontrollata dei processi sociali, o di “mobilitazione permanente” a cui siamo chiamati dalla semplice possibilità di essere ovunque tranne che “presenti a noi stessi”, consapevoli dei nostri interessi da portare al tavolo della contrattazione, se non dei nostri ideali.

Parliamo di populismi. E la radice è “popolo”. Ma probabilmente, almeno in questo, avevano visto giusto nei primi anni Duemila quei filosofi provenienti dalla sinistra rivoluzionaria (Toni Negri in testa) quando parlavano di “moltitudine”. Scriveva nel 2001 Paolo Virno: «Il popolo ha un’indole centripeta, converge in una volonté générale; è l’interfaccia o il riverbero dello Stato; la moltitudine è plurale, rifugge all’Unità politica, non stipula patti».

Un’alba nuova, quella della “moltitudine”, secondo i suoi teorici. Quello che è accaduto poi è noto.

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