Credo di essere fra i non molti intellettuali di questo paese che hanno vissuto gli anni del compromesso storico e della infatuazione eurocomunista come una penosa ambiguità, come una rinuncia delle culture diverse e delle classi ad assumere in modo chiaro le proprie responsabilità. Mi disturbava lo spettacolo di una borghesia trasformista passata nel giro di pochi anni dall'anticomunismo più acritico al filocomunismodi moda; ma neppure in quegli anni la moralità di Berlinguer mi è parsa artefatta o propagandistica, anche in quegli anni mi è parso di riconoscere in lui questa convinzione profonda: una politica senza etica è ben misera cosa; il progresso economico non è tutto, anzi è poca cosa se non crea dei cittadini e una civile res pubblica.
Niente di nuovo, si intende, cose già pensate e dette da Cavour o da Massimo d'Azeglio: l'Italia è fatta, restano da fare gli italiani. Ma un antico in cui riconoscevo le grandi speranze risorgimentali, resistenziali e costituzionali, della costituzione, come diceva Calamandrei, in cui si riassumeva il meglio della nazione.
Un giorno andai a un suo comizio in piazza San Giovanni e ne scrissi una cronaca che sbalordì amici e nemici: ma come, un anticomunista di ferro che d'improvviso alzava un inno al segretario del partito comunista? Proprio così, salvo l'equivoco. L'inno c'era, ma era per tutto ciò che in lui era fuori dal cliché comunistico, della routine politica e partitica, dalla volgarità populistica.
Era, se volete, un inno elitario, azionista, aristocratico, ma veramente "dal sen sfuggito", sincero: ritrovare un uomo, un concittadino padrone dei suoi gesti schivi, del suo accento scabroso e pur melodico; uno che visibilmente penava nell'offrirsi alla moltitudine imbandierata e caciaresca, che visibilmente sentiva fastidio per il notabilato compagnardo gioiosamente, solennemente stipato sul palco, Lama con la pipa e Pecchioli con il cilicio, Vetere pronto al taglio dei nastri e Tatò balia asciutta con contorno di gorilla e di tecnici del suono; ritrovare un italiano duro di quelli che in qualche modo sentono il bisogno di antitalianità che ha il paese furbesco e servile, che sanno ancora pronunciare parole come onestà, lavoro, merito, moralità senza che si pensi immediatamente a una predica o a una sceneggiata, a una farsa o a un melodramma.
Il suo fascino era la diversità: non quella tanto inseguita e mitizzata dal comunismo che rigenera il mondo, ma la più reale e radicata del vir probus, del signore vero, del non plebeo. Sì, mi piaceva vederlo nelle tribune politiche e nelle conferenze stampa protetto dalla volgarità come da uno scudo invisibile e impenetrabile; uno scudo di ritrosia e di gelo su cui le parole melense o indecenti, stupide, o perfide si frantumavano.
Fra gli amici di infanzia di Enrico Berlinguer c'è un Pietro Sanna di Sassari che ricorda: "Noi i Berlinguer li chiamavano Piringhieri, perché per noi gente del popolo un nome difficile come il loro era difficile da pronunciare. Giovanni molto aperto e spensierato giocava a boccette, a carambola e qualche volta a carte, Enrico invece preferiva leggere". Letture faticose, un inoltrarsi tenace e sofferente per la mistica gramsciana, per il moderno Principe e poi anche gli scritti ideologici, noiosissimi. Ma da un politico e segretario del partito comunista non ci si aspetta letteratura brillante. Del resto, il suo prestigio non è mai stato affidato alle opere ma al modo di essere uomo. Un modo ammirevole.
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