Il caso dell’uomo che vuole i migranti a casa sua e per questo è osteggiato nell’isola di cui è sindaco, offre l’occasione per capire se Ventotene, in tempi di guerra culla del Manifesto omonimo e oggi ospite della Scuola di cittadinanza della Nuova Europa, sia diventata insieme all’Italia intera insofferente.
O peggio, razzista. Temi come l’accoglienza e l’integrazione vanno di pari passo con la recrudescenza dei nazionalismi e la protezione dell’identità, come se le prime fossero in antitesi con i secondi o addirittura alimentassero esse stesse la paura dello straniero alle porte. La società italiana, da molto prima che si cominciasse a dibattere dello Ius soli, o che ci si interrogasse sulla Brexit e la Catalogna, è invece cambiata da tempo. Mentre Mohammad diventava il nome più popolare di William in Gran Bretagna, i nuovi imprenditori iscritti alla Camera di commercio di Milano dal nome arabo avevano già superato i mitici Brambilla. È stato un percorso articolato, a volte complesso, denso di pericoli, iniziato in un camion stipato di esuli al valico con l’Austria,oppure su un barcone della prima ora proveniente dall’Egitto. Ma ormai si è compiuto. Le ultimissime statistiche sui flussi lavorativi e scolastici fissano ormai su carta quello che è stato un racconto d’avventura contemporanea.
Dal Rapporto sugli stranieri e il mercato del lavoro in Italia, emerge come l’incremento dell’occupazione valga anche per i non italiani. In particolare, l’aumento è stato nel 2016 superiore alle 19mila unità nel caso dei cittadini Ue (+2,4%), di 22.758 unità nel caso dei cittadini non Ue (+1,4%), di 250mila unità per gli occupati italiani (+1,2%). Nel 2016, il surplus del saldo migratorio è stato 135 mila unità. Giusto qualcosa in più degli italiani che invece hanno lasciato il paese nello stesso anno, in gran parte giovani. Qualcuno potrebbe usare questi dati per argomentare il collegamento tra immigrazione e disoccupazione giovanile, ma sbaglierebbe. I primi, gli stranieri, non hanno tolto il posto ai secondi, gli italiani. E i dati che seguono lo dimostrano.
L’incidenza percentuale sul totale degli occupati dei lavoratori esteri, comunitari e non, è effettivamente passata dal 6,3% del 2007 al 10,5% del 2016, ma con rilevanti differenze settoriali. Si tratta di un lavoratore su dieci, una percentuale importante, ma non evidenzia un tasso di sostituzione: immigrati contro abitanti. Questa incidenza aumenta infatti se si prendono in considerazione l’Agricoltura, dove la forza lavoro straniera pesa per il 16,6% del totale, il Commercio, dove si è passati dal 3,7%, rilevato nel 2007, al 7,2% del totale degli occupati nel 2016, e i Servizi, in cui la presenza estera è salita dal 5,9% al 10,7%. Sono numeri che danno un volto a tutti coloro che ogni giorno incontriamo nei cantieri, nei negozi sempre aperti, lungo i campi coltivati del Sud, nel nostro bagno in ristrutturazione. La sensazione, basterebbe un sondaggio per capirlo, è che si accontentino di posti che noi riteniamo a torto o a ragione desueti, visto che lasciano il nostro paese persone che molto probabilmente non lavorerebbero in campagna, in un drugstore o come muratore, avendo conseguito lauree in fisica, biologia, ingegneria, lettere.
La nostra società è però mutata anche alla base, quella da cui discende tutto. La scuola è piena di apolidi in attesa di cittadinanza ma che riempiono da anni (anni) le aule che senza di loro sarebbero mezze vuote, a causa dell’endemica natalità a tasso zero. L’ultimo Rapporto del Ministero dell’Istruzione sull’integrazione, certifica come quasi uno studente su dieci in Italia sia straniero, sperando di non dover usare per molto questo termine. Dal 1995 al 2016 questi stranieri che parlano in romanesco o nella lingua del Boccaccio, sono passati da 50.322 a 815.000, una vera esplosione demografica. In tutto, il 9,2% del totale. Nel 1983 erano solo 6.000. Da qualche anno gli scolari di origine migratoria rappresentano quindi la componente dinamica del sistema scolastico, che contribuisce con la sua crescita a contenere la flessione della popolazione scolastica complessiva, derivante dal costante calo degli studenti italiani. Esattamente quello che accade per i contributi pensionistici degli immigrati, che permettono l’equilibrio dei conti previdenziali. Senza questi italiani in pectore avremmo meno lavoratori, meno studenti, meno pensioni. Questi numeri, anzi, queste persone, dimostrano come la nostra comunità, tra mille ostacoli e nuovi pregiudizi, sia già aperta. Come le radici mantengono salda la quercia nelle tempeste, la consapevolezza di questa multiculturalità può renderci più forti. Tutti.
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