Entravi in un bar e sentivi la gente che parlava di Berlusconi. Aprivi un club di Forza Italia e venivi sommerso di richieste di iscrizione e di partecipazione…
Irripetibile. Solo chi in quei giorni c’era è in grado, nel cuore prima che nella mente, di rivivere che cosa è stata la vera rivoluzione di Silvio Berlusconi e la nascita di Forza Italia, di cui oggi si celebra il trentennale. Non è solo il programma liberale. Non sono solo i nomi, anche se andrebbe celebrato prima di tutto colui che fu al fianco di Silvio con la tessera numero due del partito, Antonio Martino. Fu il popolo, fu il clima, fu un movimento inarrestabile che arrivava dalla società e nella società rientrava pieno di speranza. Fu la gioia, fu l’entusiasmo, fu lo stupore di un uomo che sapeva parlare al cuore. Chi non c’era potrebbe anche non crederci, ma era così. Entravi in un bar e sentivi la gente che parlava di Berlusconi. Aprivi un club di Forza Italia, e ancora non c’erano state le elezioni, e venivi sommerso di richieste di iscrizione e di partecipazione. Qualcuno organizzava un convegno e la folla si riversava in un cinema, in un teatro, e la fila di chi restava fuori era lunga lunga. Tutti volevano esserci.
La rivoluzione c’è stata ed era quella cosa lì, che non si era mai vista e mai più si ripeterà. Furono gli ultimi momenti di vera aggregazione, di senso di appartenenza, anche con quei segni esterni che gli stolti hanno irriso, come la spilletta al bavero e l’inno. Ma gli stolti non hanno guardato quegli occhi lucidi, quando si cantava “Forza, alziamoci, il futuro è aperto, entriamoci.. “. E non hanno capito che all’appello di un uomo vincente, per le imprese, per le televisioni nate dal nulla di un piccolo scantinato per il modello di Milano 2, per i trofei del Milan, ha risposto un popolo intero.
Quello che pareva non avere più cittadinanza dopo quegli ultimi governi dei primi anni novanta che si susseguivano a raffica, con i polpacci morsi dall’inflazione e dalla crisi che indusse un presidente del consiglio a portar via di notte i soldi dei nostri conti correnti. Quello che aveva le tasche vuote ed era rimasto senza casa, mentre contava le macerie prodotte dalla finta rivoluzione giudiziaria di finti cavalieri indomiti. La passione politica è difficile da ritrovare . Non posso che augurare ad Antonio Tajani e a quelli che oggi parteciperanno alla convention di Roma di ritrovare quell’entusiasmo, quella consapevolezza di partecipare a qualcosa di inedito che avrebbe ucciso i tanti piccoli muri di Berlino dentro e fuori di noi. Non fu un partito di plastica, Forza Italia, e non fu di un ceto privilegiato, fu l’insieme di diversi strati sociali, che forse non avrebbero amato sentirsi definire “moderati”, ma piuttosto “radicali”.
Era il popolo delle partite Iva che non aveva mai trovato cittadinanza nei progetti e nei programmi dei governi. Era il popolo dei sottooccupati e dei pensionati minimi, e di quelli che una certa sinistra chiamava con sprezzo “bottegai” e che non riuscivano neanche a tenere qualche apprendista a bottega. Era la speranza di un milione di posti di lavoro, la carta vincente di un vincente. Era colui che seppe affascinare un altro grande, Marco Pannella, e portare in Italia, anche a costo di una semi-crisi internazionale, il Dalai Lama. E, lo diciamo ai maliziosi e ai travagliati, e anche ai cercatori indefessi di mafie e mafiette, ben prima che Silvio Berlusconi fosse sopraffatto dai processi, era anche il famoso “gruppo giustizia”, quello che un altro indimenticabile liberale, Alfredo Biondi, chiamava “pacchetto di mischia”.
Eravamo forse pochi, ma determinati, tutt’altro che “moderati” sulla giustizia. Il garantismo -concetto ormai abusato dal colto e l’inclito fino a dare la nausea- di quel gruppo non ebbe bisogno di difendere nessuno dai processi. Semplicemente perché non c’erano ancora. E basterebbe ricordare, insieme al ministro Biondi, il sottosegretario Memmo Contestabile, e deputati come Piero Broglia o Marco Taradash o in Senato Francesca Scopelliti ed Emiddio Novi. E poi Vittorio Sgarbi, la nostra avanguardia dentro le tv. E l’antiproibizionismo di Antonio Martino, abbandonato per strada dai seguaci di Maurizio Gasparri, che proviene da una storia politica diversa. E che ministri erano usciti dal cilindro di Silvio il giocoliere, che aveva messo insieme i longobardi del dio Po con gli uomini della Magna Grecia! Ricordiamone qualcuno, non a caso, e oltre a quelli già citati: Giuseppe Tatarella, Roberto Maroni, Raffaele Costa, Adriana Poli Bortone, Antonio Guidi, Giuliano Ferrara.
Quel governo visse otto mesi, dall’11 maggio 1994 al 17 gennaio 1995. La rivoluzione finì così. Poi il resto durò trent’anni, al termine dei quali rimane quell’immagine struggente di Silvio Berlusconi che sa di essere alla fine della vita e guarda da un bar di Milano 2 mentre sta andando in ospedale una parte di quello che ha costruito. E lo ritroviamo, con strazio, nelle parole riferite nell’editoriale di ieri di Augusto Minzolini su una telefonata notturna che fa il punto di quello che è accaduto dopo quella rivoluzione: “…io sono stato l’imprevisto che gli ha sbarrato la strada. Me l’hanno fatto pagare a caro prezzo e me la faranno pagare anche da morto”.
Non vale neanche la pena di nominare quel procuratore che ammise di essersi pentito di aver partecipato al banchetto che aveva distrutto la prima repubblica perché il “dopo” ai suoi occhi miopi era stato peggiore. Vale invece la pena di ricordare a quelli che ci sono oggi, a quei pochi o tanti i cui occhi ancora si inumidiscono nel sentire l’inno di Forza Italia, quelli per cui la spilletta non è solo fastidioso dovere, che una rivoluzione c’è stata quel giorno. E il modo migliore per riviverla è la nostra passione politica. Per ricordare Silvio e anche la memoria di noi che c’eravamo, ma soprattutto quel popolo che affollava i bar e ci credeva. Auguri Antonio, e a tutti voi. Fatevi sentire.
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