mercoledì 1 maggio 2024

TEORIE POLITICHE FILOSOFIA DELLA POLITICA MARXISMO IN ITALIA. PROSPERO M., Chi era e cosa ha fatto Mario Tronti, cercò di salvare Marx dal naufragio del Novecento, L'UNITA', 9 agosto 2023

 Gran parte delle opere di Mario Tronti è raccolta nel volume Il demone della politica, uscito per il Mulino nel 2018. È evidente che un lavoro di ricerca che si prolunga per quasi 65 anni sollecita tra gli interpreti domande circa la sua continuità tematica. Non manca chi rimarca la presenza di due Tronti diversi. Il primo, un pensatore che è appena sopra i 30 anni, lo rivela come il più penetrante filosofo dell’operaismo. Il secondo lo fa emergere, negli anni Settanta, come il teorico che ricostruendo la genealogia del potere approda all’“autonomia del politico”. Più che di due profili distinti, che si alternano nel tempo assumendo dei fondamenti analitici tra loro antitetici (la classe e il partito, l’insubordinazione di fabbrica e la tattica nei luoghi dello Stato), sarebbe meglio parlare di due angolazioni, con rilevanti ricadute anche linguistiche, di un pensiero che, inoltrandosi in nuovi terreni, nelle sue basi sostanziali conserva la stessa bussola. Mutano quindi gli accenti e le tonalità espressive, rimane uguale l’attenzione per la costruzione del soggetto che, grondante di volontà d’agire contro la pervasiva rete degli assetti costituiti, sfida il tempo del dominio con il pensiero e l’organizzazione.




Non c’è frattura tra l’incastro di Weber con Lenin, per selezionare un personale politico spendibile nel grande conflitto per il potere, e il Tronti segnato da un immanentismo radicale che accompagna il farsi soggetto della “rude razza pagana” la quale, senza fede e senza l’oppressione deviante della tirannia dei valori, prepara un solitario assalto del “lavoro vivo” al cielo del capitale e del comando cosificato nella macchina impersonale. In entrambi i momenti, la critica delle armi è l’orizzonte di un combattivo punto di vista parziale impegnato in quella sfida senza tregua che Tronti in seguito chiamerà “la saggezza della lotta”. Accompagnare “Lenin in Inghilterra” significa che, contro il ripiegamento rivendicativo del sindacato e il riformismo a spizzico, non basta predicare l’insubordinazione, occorre contrapporre il grande realismoche con la tattica più accorta (l’autonomia del politico, appunto) dà scacco al capitale in uno dei suoi punti più avanzati di dominazione. In ogni fase del suo pensiero, Tronti ha respinto il linguaggio edificante dell’universalismo,il culto delle forme che nelle fasi critiche impedisce di galvanizzare massedisciplinate. Delle opere del Marx attento alle dinamiche della storia, egli apprezzava lo stile disincantato, la trama narrativa senza infingimenti e poco incline alle regole della correttezza formale, che poi esalterà anche nel grande pensiero conservatore. “Se uno storico leggerà dastorico il 18 Brumaio, gli sarà troppo facile trovare errori di grammatica” (M. Tronti, Operai e capitale, p. 160). Allo storiografo sfugge che lo spirito dello scritto marxiano è politico. E proprio per questa sua inquietudine, che è tutta d’impronta partigiana, reputa di avere davanti a sé “uno scritto politicamente rozzo, violento, settario, unilaterale”. Quando si prepara lo scontro, per non farsi trovare disarmati, serve una scrittura senza gli abbellimenti ricamati dagli approcci democratici, che paiono propedeutici alle più innocue neutralizzazioni. L’incontro del punto di vista di classe (Marx) con la teologia politica di Schmitt (Karl und Carl) si colloca in un tentativo di esplorazione dei fondamenti aurorali del politico moderno, alla ricerca della dimensione genealogica del sovrano che costruisce con il volere intransigente un nuovo ordine

La riflessione sulla lunga transizione inglese (Hobbes eCromwell) non procede in Tronti solo come istanza correttiva del determinismo della storiografia marxista (emendata attraverso il recupero di storici come P.Zagorin o L. Stone, che esaltano il momento costruttivo della decisione politica rispetto alla pura composizione di classe). Dal cammino inglese tutt’altro che lineare, e anzi denso di crisi (di regime, con il rivolgimento della forma dello Stato e dei vecchi istituti di mediazione), egli cerca destra polare anche il modello di una transizione matura in Occidente, la quale esige dentro il partito operaio il senso della manovra che afferra l’occasione e con l’affondo risolutivo rovescia la scacchiera. L’indicazione di Tronti (Stato e rivoluzione in Inghilterra, p. 186) è che “sviluppo e crisi nell’economia della transizione,sviluppo e crisi politica delle istituzioni di potere non sono due fatti che si susseguono nel tempo – post hoc, propter hoc -, sono due processi contemporanei, che si intrecciano, si confondono, si condizionano a vicenda”. Sul piano dell’approccio analitico al tema della “transizione”, spiccano le assonanze tra le suggestioni trontiane circa la funzione attiva del momento politico e gli assunti del filone del “political Marxism” anglo-americano, che è molto influente nelle accademie grazie alle ricerche storiche di E. Meiksins Wood e R. Brenner. Non risale alla cosiddetta svolta degli anni Settanta l’influenza di Tronti all’interno del gruppo dirigente del Pci sedotto dall’autonomia del politico. L’innesto di categorie schmittiane, o l’analogia con il Seicento inglese, preconizzando il trionfo entro una perfetta condizione di eccezione, sono ancora guardate con sospetto, malgrado i segni di attenzione mostrati da Napolitano nel ’77 in occasione del convegno di Padova su “Operaismo e centralità operaia”. Il Pci non insegue una frattura, che inaugura un tempo radicalmente discontinuo, giacché ha maturato una cultura politica di impronta kelseniana, molto sensibile alla sfida lanciata da Bobbio sul valore universale della democrazia-procedura. Le suggestioni trontiane per la grande decisione, unite all’accarezzamento della produttività della situazione eccezionale, una vera fortuna – suggellata con l’ingresso nei gruppi dirigentinazionali – la troveranno solo nella fase del “secondo Berlinguer”, con il ritorno a scene di conflitto di classe che durano sino alla metà degli anni ’80. La fine del secolo breve verrà registrata da Tronti come il frangente che sancisce il tramonto della grande politica. Nella cognizione del dolore per la sconfitta che si dispiega, rimane la nostalgia per il Novecento come il tempo di sperimentazione di un’efficace sintesi tra la teoria e l’organizzazione. La decomposizione della unità di politica pratica e riflessione teorica suggerisce l’adozione di una esplicita demarcazione tra il pensiero, che deve pur sempre spingersi sino ai limiti estremi del possibile, e la contingenza, che non può non risolversi nella mediazione, nella considerazione delle compatibilità dettate dai rapporti di forza ormai sfavorevoli. Gli anni della disfatta sono quelli che dall’era del totuspoliticus, con la forza costituente che occupa il Palazzo per decidere un inedito ordinamento, conducono al trionfo catastrofico del totus antipoliticus,con il potere recitante del capo dilettante alla ricerca del selfie nell’irresistibile ascesa della chiacchiera post-moderna.

Il ricorso alla teologia politica, recuperata come strumento di resistenza dei “dominati”, ovvero come ancoraggio ultimo “per chi non vuole più obbedire”, apre al momento weberiano del “tragico”. E per questo il sentimento della scissione tra pensabile e condizioni date spinge Tronti a curiosità mistiche, al tragitto molto soggettivo di uno “spirito libero” che si ribella alla “dittatura democratica del presente”. Nel suo esame della democrazia, insieme alle venature liberali ricavate dal Tocqueville nemico precoce della omologazione della società del consumo di massa, è visibile la melanconia di chi alla critica del potere e del sociale antepone la “critica di civiltà”.È la questione scivolosa della massificazione letta come “emergenza antropologica” che, nel vuoto dei soggetti reali, va affrontata con una “reazione”: chi, entro i rapporti definiti, non ha il potere di agire contro il capitale-mondo deve solamente “reagire”, rivisitare storia e tradizione, rivendicare memoria per cercare in ogni modo di “salvare Marx dal naufragio del Novecento”. La grande crisi della modernità esige, secondo Tronti, l’utilizzazione di attrezzi inediti nel segno di una critica della mentalità progressista e “benpensante” erede della Rivoluzione francese. Così,accanto alla geopolitica necessaria per decrittare il capitale globale, occorre praticare la teologia per intravedere “l’oltre”. Se un collegamento è possibile afferrare in questo viaggiare dalla fabbrica allo Stato, dal realismo alla trascendenza (nella ricerca di “nuove armi per la vecchia guerra”), esso è proprio il berretto di Lenin (bisogna procedere “con occhi lucidi, ma con il fuoco nella mente”). Non potrà portarlo “Lenin in Inghilterra”, come sperava (una traduzione inglese di Operai e Capitale è comunque apparsa nel 2019), in compenso Tronti ha celebrato a suo modo il centenario dell’Ottobre dai banchi del Senato della Repubblica. Anche nell’epoca della scissione insuperabile tra il “volare nel cielo della visione” e la condanna “a navigare a vista”, Tronti confida nella “scintilla della speranza” di Benjamin, capace di presentarsi all’improvviso per bruciare il torpore di un capitalismo ovunque trionfante. Con Shakespeare amava dire che tocca fare come colui che “in una nuova terra seguirà la sua vecchia strada”.

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