Nell’Ideologia Tedesca e nei Grundrisse Marx predicava la lotta per liberarsi dal lavoro. Ma il lavoro serve. Alla collettività e all’individuo. Primo Levi aveva una idea diversa.
In occasione del Primo Maggio di ogni anno, confesso, provo qualche imbarazzo nel festeggiare il “lavoro”. So bene che si festeggiano – dal 1889 – le lotte e i diritti dei lavoratori in tutto il mondo, ricordando tra l’altro una strage di operai a Chicago e la conquista della giornata lavorativa di otto ore. Tuttavia mi resta qualche perplessità. Anche il primo articolo della Costituzione fu, come è noto, un compromesso un po’ pasticciato tra comunisti (che avrebbero voluto “repubblica fondata sui lavoratori”) e democristiani.
Occorre risalire a Marx: nella sua opera, e in momenti diversi, troviamo una ambivalenza originaria: sia la liberazione del lavoro e sia la liberazione dal lavoro (soprattutto nell’Ideologia tedesca e nei Grundrisse). Da una parte il lavoro come primo bisogno dell’uomo, come autorealizzazione, sviluppo di tutte le facoltà (fisiche e mentali). E certo va “liberato” da qualsiasi sfruttamento e logica di profitto. Dall’altra il lavoro come coercizione in sé, fatica, asservimento a una necessità esterna (a Napoli per “lavorare” dicono appunto “faticare”), come memoria della maledizione biblica, della cacciata dall’Eden a causa del peccato originale. Dunque non solo il lavoro salariato: questa idea della liberazione dal lavoro tout court venne ripresa tra gli altri da Marcuse. Qualche anno fa uscì un prezioso pamphlet che riguardava questo aspetto, Lavorare sfianca, scritto da due autori anarchici non-violenti, Lucilio Santoni e Alessandro Pertosa. Quello che una volta era il diritto al lavoro tende a slittare nel diritto al reddito.
Aggiungo che è sempre meno il lavoro a definire la propria identità. Come scrisse dieci anni fa Francesco Cataluccio in un post: “lavoro deve essere ricondotto al suo vero (e non mistificato) valore economico-sociale. Lavoro per guadagnarmi da vivere, e lo faccio bene perché mi sento parte di una comunità che rispetto e ho coscienza dell’impegno che mi sono assunto. Ma il mio Senso sta altrove. Dove? Non deve mai risiedere in una cosa sola: né soltanto nell’amore, né nei figli, né nello sport, né nella politica. Più luoghi, e modi di senso, uno ha e meno rischia il crollo e il disagio. Il Senso della vita deve stare in tante cose, perseguite con passione e dedizione”.
Ora, come riconciliare le due anime o verità del lavoro, le due diverse accezioni dello stesso concetto? Potrebbe soccorrerci Primo Levi con la Chiave a stella (premio Strega nel 1978), commosso elogio del lavoro manuale e ritratto di un operaio specializzato. Il narratore (che si può identificare con l’autore) non fa che riferire i racconti di Libertino Faussone, detto Tino, operaio torinese impegnato nel montaggio di ponti sospesi, tralicci, gru, trivelle e impianti petroliferi. Un libro controcorrente, negli anni di aspre lotte sociali alla Fiat e dello slogan operaista del “rifiuto del lavoro” (da Tronti a Bifo). In realtà Levi aveva in mente non il lavoro fordista, parcellizzato e ripetitivo, della catena di montaggio e di Tempi moderni di Chaplin, ma un lavoro altamente specializzato, vicino a una qualche forma di artigianato, fatto insieme di routine e inventiva.
Lo storyteller Faussone, montatore di molecole e di racconti, con il suo inseparabile utensile, la chiave a stella (che rimanda anche alla identità ebraica di Levi), vince ogni volta la sua battaglia con le condizioni ambientali e con i materiali stessi. Gira per i cantieri di tutto il mondo, fuori dalle fabbriche: incarnazione dell’homo faber, abile e ingegnoso, profondo conoscitore della tecnica. Attraverso di lui Levi stende il proprio elogio del lavoro professionale: “l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”. Come ritradurre l’altissimo messaggio leviano per questo Primo Maggio? Due considerazioni. Anzitutto: qualsiasi lavoro, anche il più umile o perfino avvilente – in parte ineliminabile: non tutto il lavoro può diventare “cognitivo” – , se svolto con attenzione e scrupolo implica comunque l’orgoglio di essere utili alla collettività, alla polis, e può essere perfino una forma di meditazione (si pensi a Perfect days di Wenders, su un lavatore di cessi a Tokyo che ogni pomeriggio torna a casa a leggere un libro e ad ascoltare musica, oltre che a collezionare pianticelle e a gestire le proprie relazioni intime).
A patto che questo tipo di lavoro occupi solo una parte della giornata e sia equamente distribuito dal punto di vista sociale: con la immensa ricchezza finora prodotta e lo sviluppo tecnologico ognuno potrebbe lavorare tre ore al giorno, secondo la celebre predizione di Keynes nel 1930 (non un pensatore sovversivo ma il più grande economista borghese del secolo scorso). E poi: se qualcuno obietta che lui ama il proprio lavoro, benissimo. Si trova vicino a una condizione di felicità, secondo Levi. Però allora, potrebbe chiamarlo diversamente. Ad esempio “vocazione”. Ecco, in questo senso propongo allora, soltanto per una volta, di festeggiare in questo primo maggio non solo il lavoro liberato ma anche la “vocazione”!
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