La solidarietà verso il popolo palestinese è stato uno dei tratti costitutivi della identità politica della mia generazione di militanti della sinistra. L’idea di una pace giusta in Medio Oriente fondata sui diritti di due popoli, in grado di garantire futuro e sicurezza allo Stato di Israele accanto a una Palestina libera e indipendente è stato un grande obiettivo condiviso non solo dalla sinistra ma da tutte le forze democratiche dell’Italia per decenni.
È capitato a me, come militante o come uomo di governo, di essere partecipe di tanti momenti di speranza, di delusione o di tragedia, di tanti tentativi generosi, passaggi cruciali, occasioni perdute. Ricordo quando Fatah, dopo gli Accordi di Oslo, fu accolta nell’Internazionale socialista. Fu a Roma l’assemblea alla quale partecipò per la prima volta Yasser Arafat e io detti la parola a Shimon Peres per le parole di benvenuto. Le ricordo quelle parole: “Nelle trattative con i palestinesi – disse Shimon – abbiamo sempre avuto un problema. Essi volevano che noi chiamassimo Arafat ‘rais’, ma noi non gli riconoscevamo questo ruolo di presidente. Ora il problema è risolto: lo chiameremo ‘compagno’”.
Ancora oggi sento l’onda di speranza e di commozione che attraversò in quel momento la platea e l’animo di ciascuno di noi. La notte del giubileo del 2000 ero a Betlemme, insieme alla mia famiglia, con Arafat nella Chiesa della Natività, mentre in collegamento diretto da Roma si apriva la Porta santa. Sembrava venuto il tempo della pace. Ma ricordo anche le delusioni e i momenti difficili qualche anno dopo, nel vivo della seconda Intifada, quando raggiunsi il presidente dell’Olp nella Muqata’a, assediata dall’esercito israeliano. La mia missione era quella di convincerlo a lasciare il campo a un leader in grado di riaprire il dialogo con Israele. Non fu facile parlare con Arafat della necessità di puntare su Abu Mazen. Ricordo con amarezza l’asprezza di quella discussione drammatica. E ancora penso a quella estate del 2006, all’impegno politico e diplomatico dell’Italia e dell’Europa per fermare la guerra in Libano.
Lo sforzo per coinvolgere Condoleezza Rice e gli Stati Uniti d’America, la spola fra Gerusalemme e Beirut e la responsabilità con la quale, investiti dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite, mettemmo in campo le nostre forze, per decisione del governo italiano guidato da Romano Prodi, con il sostegno quasi unanime del Parlamento. Quell’azione che culminò con la risoluzione 1701 e il dispiegamento di Unifil 2 fu forse l’ultima iniziativa europea di rilievo per la pace in Medio Oriente. Mai, nel corso di una storia lunga e tormentata, abbiamo vissuto un’ora così buia. Non è solo il peso incancellabile della enorme tragedia che si è svolta e si svolge di fronte alla impotenza o alla complicità del mondo. Il barbaro massacro del 7 ottobre e la feroce, inaudita rappresaglia israeliana contro la popolazione di Gaza ci hanno dato la misura e il senso di un conflitto che non è più una guerra nazionale per il diritto ad un territorio e ad una patria, ma l’espressione di un odio etnico e religioso, volto a negare l’umanità dell’altro e a cancellarlo barbaramente dalla faccia della terra.
Suonano oramai prive di senso le parole che vengono tradizionalmente ripetute: “Due popoli, due Stati”, “Incoraggiare le parti a negoziare”. Questo mantra della diplomazia europea appare oramai per ciò che è: un modo ipocrita e impotente per scaricarsi dalla coscienza il peso della tragedia. Mentre nel campo palestinese crescono disperazione ed estremismo fondamentalista dall’altra parte la destra razzista che ha preso il comando in Israele persegue con la forza delle armi l’idea di una “soluzione finale” della questione palestinese. Abbiamo visto i volti sorridenti di Trump e Netanyahu annunciare il progetto della pulizia etnica dei palestinesi di Gaza, allo scopo di costruire sulle rovine e sui cadaveri dei bambini, catene di resort turistici e di casinò. Una immagine che fa orrore, ma che almeno è utile a sgombrare definitivamente il campo dalla retorica dell’Occidente che difende i valori e i diritti umani contro le “autocrazie”. Dovrebbe essere innanzitutto il mondo ebraico a comprendere il rischio che le ragioni incancellabili di Israele e del suo popolo sprofondino in questo orrore. E dovrebbe essere l’Europa, capace di opporsi ad un progetto che non soltanto è la negazione dei valori costitutivi e della missione che l’Europa si è data nel mondo, ma che genererebbe un futuro di odio, insicurezza e violenza in questo Mediterraneo nel quale noi viviamo e dobbiamo costruire il futuro dei nostri figli.
Questo numero di Italianieuropei nasce dalla volontà di non arrendersi a tale deriva, di raccogliere le voci e le testimonianze di chi è disposto a lavorare controcorrente per riaprire una prospettiva di pace giusta e di convivenza. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha detto con coraggio qualche giorno fa che il futuro di quella terra tormentata non può essere nelle mani di Benjamin Netanyahu e di Abu Mazen. Per quanto possa sembrare paradossale in una situazione in cui tante persone lottano per sopravvivere, ciò che sarebbe urgente è proprio rimettere in azione un processo democratico che consenta di fare emergere nuove leadership. Una parte larga dell’opinione israeliana chiede nuove elezioni da cui si può sperare emerga una guida diversa dal gruppo di razzisti e criminali di guerra che rappresentano oggi il volto di Israele.
Dall’altra parte c’è, a mio giudizio, la possibilità che dalla società civile palestinese emergano forze e personalità non compromesse con il terrorismo fondamentalista, né con l’ormai consunta e delegittimata gerontocrazia arroccata a Ramallah. Il popolo palestinese ha bisogno di volti nuovi in grado di tornare a parlare al mondo. E Israele più che mai non può identificarsi con l’immagine di massacratori e torturatori che oscura le ragioni di quella che è stata a lungo ammirata come l’unica democrazia del Medio Oriente. Forse può apparire irrealistica l’idea di uscire dalla guerra con le elezioni, ma se la comunità internazionale ponesse con forza l’esigenza di una rilegittimazione democratica delle forze in campo, credo che verrebbe proprio dal popolo israeliano e dal popolo palestinese la spinta per uscire dalla logica di guerra. Questo non significa tuttavia tornare all’idea, che sarebbe comunque velleitaria, che una prospettiva di pace possa fondarsi sul dialogo tra le parti.
Oggi questo significherebbe soltanto, sostanzialmente, mettere nelle mani di Netanyahu il destino del Medio Oriente, come sembrerebbe voler fare Trump, con conseguenze disastrose non solo per il popolo palestinese, ma più in generale per la sicurezza e la stabilità, nel lungo periodo, in questa parte del mondo. Se si vuole una soluzione politica e diplomatica questa deve essere costruita con un impegno diretto della comunità internazionale e delle sue istituzioni. Nel 2006 la guerra tra Israele e Libano non fu fermata da un negoziato tra le parti, ma da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dal dispiegamento di una forza internazionale. Ricordo che allora l’Italia propose che la risoluzione 1701 prevedesse anche l’invio di migliaia di osservatori dell’Onu a Gaza per prevenire un conflitto. Non fu possibile non solo per l’opposizione di Hamas ma anche per quella del governo israeliano sostenuta dagli americani.
Oggi, dopo quello che è accaduto, ci sarebbe bisogno di una conferenza di pace per definire i contorni di una soluzione sostenibile e convogliare le risorse umane e finanziarie al fine di costruire un assetto stabile e internazionalmente garantito. Mi rendo conto che non è facile camminare in questa direzione, ma sarebbe esattamente il compito dell’Europa assumersi la responsabilità e mettere in campo la sua autorità politica. L’Europa ha pagato e paga un prezzo molto alto. Sono i contribuenti europei che pagano le infrastrutture che poi Israele distrugge e poi l’Europa ricostruisce a spese sue, assumendosi così gli oneri che spetterebbero all’occupante, senza esercitare alcun ruolo politico, come ci viene detto, talora con scherno, con la formula “payer, non player”.
Sarebbe arrivato – se non ora, quando – il momento di ribellarsi a questa condizione. Non sono soltanto in gioco i nostri valori e la coerenza con i nostri principi e con la nostra storia, la storia di un’Europa che ha fatto la guerra per fermare la pulizia etnica nel Kosovo, ha processato e messo in prigione Milosevic per questo, e non credo quindi possa oggi festeggiare Netanyahu. Ma è in gioco anche la nostra sicurezza, perché il rischio è quello di sedimentare un odio che non potrà che generare violenza per decenni in questa parte del mondo. La posta dunque è molto alta. Ricordo molti anni fa un dibattito a Parigi sul significato dell’Unione europea. Io sostenevo che l’Europa è il principale argine al rischio di un imbarbarimento del mondo. “Monsieur D’Alema, la barbarie c’est nous!” fu la risposta sarcastica di George Steiner. A volte sono colto dal dubbio che avesse ragione.
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