I l 25 novembre, il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, invia alle famiglie italiane una lettera che chiama in causa direttamente il futuro dei figli che frequentano la terza media. Il contenuto non ha nulla di formale: indica una rotta, racconta una visione del mondo, anche se lo fa con un tono che ricorda più una campagna culturale che un semplice atto amministrativo.
Nelle prime righe Valditara definisce la scelta della scuola superiore «un momento decisivo», poi trasforma l’orientamento in prescrizione. Invita famiglie e studenti a «guardare con attenzione alle professioni più richieste», a scegliere percorsi che offrano «le migliori opportunità occupazionali».
Il punto non è tanto che un ministro inviti a informarsi, è ovvio che debba farlo, ma quali informazioni sceglie di fornire e, soprattutto, quali tralascia. L’allegato tecnico che accompagna la lettera è un documento di taglio quasi economico: tabelle sui tassi di occupazione degli Istituti tecnici superiori, proiezioni dei fabbisogni di profili tecnici, stime delle imprese italiane per il quinquennio 2025–2029.
Non c’è alcun riferimento al valore culturale, né alla funzione educativa della scuola come luogo in cui si forma una cittadinanza consapevole e i licei compaiono solo come percorsi «che richiedono la prosecuzione universitaria», come se l’obiettivo di un quattordicenne fosse solo trovare lavoro «il prima possibile».
Nei dati ufficiali, i percorsi tecnico-professionali appaiono come l’unica strada “ragionevole”. Il mercato, affermano le tabelle, richiederà nei prossimi anni tra 8.000 e 33.000 diplomati tecnici in più rispetto all’offerta attuale. È una fotografia reale: in Italia mancano sistemisti industriali, manutentori, tecnici elettromeccanici, esperti meccatronici. Ma la fotografia è scattata da un’angolazione molto stretta. Mostra il mercato del lavoro come se fosse un oggetto stabile, una struttura prevedibile, e descrive gli studenti come figure da allocare.
L’idea alla base della lettera è che il futuro sia prevedibile osservando i fabbisogni del 2025. Presuppone che i ragazzi debbano prepararsi a ciò che serve oggi, non a ciò che servirà quando entreranno davvero nel mondo del lavoro, cioè tra cinque o dieci anni. Il problema è che le economie avanzate si stanno trasformando con velocità mai registrata nella storia contemporanea. La digitalizzazione ha cambiato professioni intere in pochi anni; la rivoluzione dell’intelligenza artificiale sta ridisegnando ruoli e processi; le catene del valore sono diventate instabili e dipendenti da fattori geopolitici, energetici, regolatori. Nessun mercato è più lineare, e nessun percorso di studi può essere valutato solo in base agli sbocchi immediati.
Persone che sanno imparare
Se si guarda a come lavorano davvero le imprese più dinamiche, l’idea della scuola come catena di montaggio di “profili pronti” appare subito datata. Negli ultimi anni molte grandi aziende internazionali – dalla tecnologia al manifatturiero avanzato – hanno cambiato il modo di organizzare il lavoro: non più ruoli rigidi, ma strutture in cui contano le competenze delle persone e la loro capacità di spostarsi tra progetti, funzioni, persino mestieri diversi. Si parla sempre più spesso di organizzazioni skill-based, dove la scheda del lavoratore non è solo un inquadramento contrattuale, ma una mappa viva delle sue abilità, delle sue esperienze, del suo potenziale di apprendimento.
In Europa e negli Stati Uniti, una quota crescente di grandi aziende dichiara di usare piattaforme interne per mappare le competenze dei dipendenti e costruire percorsi di mobilità orizzontale: non si assume qualcuno perché “è sempre stato project manager”, ma perché sa coordinare persone, leggere i dati, comunicare con i clienti, usare strumenti digitali complessi.
Di fronte alla difficoltà a trovare sul mercato profili già pronti, molte imprese hanno smesso di inseguire “l’unicorno perfetto” e hanno cominciato a investire sul talento che già possiedono, spostando persone da un’area all’altra, formando ingegneri al marketing, tecnici alla gestione dei dati, commerciali alla sostenibilità, preferendo valutare le competenze effettive e la capacità di imparare sul campo.
Non cercano esecutori perfetti di mansioni stabili; cercano persone che sappiano attraversare le trasformazioni tecnologiche senza esserne travolte. In questo scenario, l’idea che la scuola debba produrre giovani già perfettamente allineati a un mestiere appare rovesciata. Le imprese più lucide non chiedono esecutori addestrati una volta per tutte, chiedono teste che sanno imparare, disimparare, reimparare. È paradossale: proprio mentre una parte della politica invita i ragazzi a chiudersi presto in un corridoio professionale, il mondo del lavoro più avanzato chiede esattamente il contrario.
Le competenze del futuro
I grandi osservatori globali raccontano una storia molto diversa da quella suggerita nella circolare di Valditara. Il Future of Jobs Report del World Economic Forum del 2025 mostra che tra le competenze più richieste nel 2030 ci saranno pensiero analitico, creatività, resilienza, collaborazione, curiosità intellettuale, capacità di risolvere problemi non strutturati. Sono competenze non replicabili dalle macchine e non legate a un settore specifico; hanno la caratteristica di poter essere spese in contesti diversi e di resistere nel tempo, proprio perché poggiano su capacità cognitive profonde.
L’Ocse, con il suo Learning Compass 2030, aggiunge una previsione che dovrebbe far tremare un ministro dell’istruzione molto più di qualsiasi fabbisogno immediato: entro il 2035 circa il 40 per cento dei lavoratori europei dovrà cambiare in modo significativo il proprio mix di competenze almeno una volta nella carriera. Non è una transizione: è una condizione permanente. Chi sa reinventarsi e lavorare con gli altri, dentro sistemi tecnologici complessi, sarà più al sicuro di chi possiede una sola specializzazione fragile.
Nessuna strategia della conoscenza
Da anni l’Italia procede per interventi episodici: un piano sull’alternanza scuola-lavoro, una riforma dei tecnici, un potenziamento degli Its, qualche misura del Pnrr, una revisione degli esami di Stato. Manca una regia, una direzione chiara, un’idea condivisa di cosa dovrebbe essere la “strategia della conoscenza” per un Paese che è la terza economia dell’Eurozona ma investe in istruzione, ricerca e competenze molto meno dei suoi concorrenti.
La spesa pubblica per l’istruzione in Italia, da anni, si aggira intorno al 4 per cento del Pil, contro una media Ocse che supera il 5. Sul fronte della ricerca e sviluppo, l’Italia oscilla da tempo intorno all’1,5 per cento del Pil, mentre la Germania viaggia verso il 3 e i Paesi del Nord Europa hanno già superato quella soglia. Sul piano delle competenze di base il quadro non migliora. Le indagini dell’Ocse, che misurano le abilità di lettura, calcolo e problem solving degli adulti, collocano da anni l’Italia in coda alle classifiche dei Paesi avanzati: una quota non marginale della popolazione fatica a comprendere testi complessi, a interpretare dati, a risolvere problemi non routinari.
È un problema che si porta dietro dalla scuola e che viene aggravato dall’assenza di una vera cultura della formazione continua. Nel Nord Europa la partecipazione degli adulti ad attività di apprendimento permanente supera spesso il 20-25 per cento; in Italia si aggira attorno alla metà o meno.
Anche sul fronte digitale il ritardo è evidente: i rapporti europei indicano che la percentuale di cittadini italiani con competenze digitali almeno di base resta inferiore alla media Ue, e la distanza cresce se si guarda alle competenze avanzate.
C’è poi il tema dei giovani qualificati che se ne vanno. Da anni l’Italia registra un saldo negativo tra laureati in uscita e in entrata: migliaia di ragazzi e ragazze formati nelle nostre università scelgono di lavorare all’estero, dove trovano ecosistemi della conoscenza più solidi, retribuzioni migliori, percorsi di carriera meno opachi.
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