Non ci strapperemmo certo le vesti in difesa di Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, che rischia di occupare per i prossimi quattordici mesi un'altra branda nelle già sovraffollate galere nostrane. Se non fosse che, per una volta, la vicenda del giornalista vicino alla famiglia Berlusconi, appartenente senz'altro a quella "casta" di cui dalle nostre parti abbiamo solo sentito parlare, ci interroga tutti. Se la Corte di Cassazione oggi o nei prossimi giorni (si parla di un probabile rinvio) dovesse confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Milano per un articolo - non suo - pubblicato nel 2007 sul quotidiano Libero di cui allora era direttore, Sallusti, essendo recidivo al reato di diffamazione a mezzo stampa (eventualità non rara per un giornalista professionista), non potrebbe usufruire della condizionale e sarebbe quindi costretto alla reclusione a spese dello Stato.
È la ex Cirielli, bellezza. La legge fortemente voluta dal centrodestra per salvare Cesare Previti, contro la quale il nostro Sallusti a occhio e croce non deve aver speso molte parole nella sua lunga carriera. È una delle tre leggi criminogene (insieme alla Fini-Giovanardi sulle droghe e alla Bossi-Fini sull'immigrazione) che hanno riempito le nostre carceri fino al punto di portare l'Italia tra i Paesi più attenzionati dal Consiglio d'Europa (che proprio in questi giorni dovrà pronunciarsi sul piano d'azione adottato dal governo per rimuovere le cause strutturali che hanno portato alle condanne della Corte europea dei diritti umani).
Certo, l'articolo in questione per il quale Sallusti rischia il carcere è quanto di peggio si possa pubblicare. Come scrive Alessandro Robecchi sul suo blog, il pessimo Dreyfus che firma l'articolo condannato ha inanellato una bestialità dietro l'altra in una cronaca violenta e menzognera che attribuisce ai giudici l'imposizione di un aborto concesso a una ragazzina di 13 anni che non voleva coinvolgere il padre nella sua decisione. «... se ci fosse la pena di morte - conclude il redattore di Libero -, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice». Pornografia pura, che si commenta da sé. Ma pur sempre di reato d'opinione si tratta. In un Paese relegato quest'anno nelle classifiche mondiali della libertà di stampa al sessantunesimo posto, molto dopo il Niger, El Salvador, la Romania, la Lettonia, la Bosnia, Haiti, il Sudafrica, il Botswana, la Corea del sud e così via, manca solo di finire in carcere per una cronaca.
È evidente che il reato previsto dall'articolo 595 del Codice penale è un argine al potere mediatico, che in molti casi può recare gravi danni alla vita delle persone. Ma è altrettanto vero che si è trasformato ormai, spesso e volentieri, in un bavaglio al diritto di cronaca e di critica. Politici, amministratori, fascisti, pregiudicati e potenti di qualunque risma lo utilizzano a tambur battente come strumento di intimidazione e perfino a scopi puramente lucrativi. Per chi ha a disposizione uno staff di avvocati, il costo di una querela per diffamazione è nullo, anche nel caso di un buco nell'acqua. D'altra parte, un giornale scandalistico o con buone disponibilità finanziarie può anche mettere in conto il prezzo di una pena pecuniaria in risarcimento dell'eventuale danno morale. Si dirà: per questo non bastavano i cinque mila euro comminati in primo grado al direttore Sallusti. Ma non è così: posto che la galera di Sallusti non sarà mai la galera di uno qualsiasi, è un'enormità che non auguriamo a nessuno. Occorrerebbe invece un po' più di cautela da parte di magistrati e giudici, per non intasare ulteriormente e senza motivo un sistema giudiziario già quasi paralizzato. Ma soprattutto la diffamazione a mezzo stampa è un altro di quei tanti reati che andrebbero subito depenalizzati.
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