Le critiche, le divisioni, le polemiche interne, anche quando sono aspre, danno comunque l’idea di essere iscritte nello stesso perimetro, dove riescono a convivere posizioni anche molto distanti tra loro, qualche volta persino opposte. Il Partito democratico rappresenta, in questo momento, la principale polarità sulla scena politica. E, dopo molto tempo, nel centrosinistra si respira l’odore di avvicinamenti e confluenze anziché di scissioni o allontanamenti.
Il partito di Bersani non è un monolite da cui discendono le scelte, ma un luogo di confluenze, con una cifra politica di stampo riformista. L’incompiutezza di alcune scelte di fondo, che darebbero ai democratici italiani un’identità più definita e nitida, come quelle su temi etici, del lavoro e dello sviluppo, per adesso non costituiscono un limite. Sembrano soltanto rimandare a un’altra fase politica. Nel frattempo, il Pd ha comunque una sua atmosfera da offrire mentre, dall’altra parte, prevale la rarefazione.
Il prezzo che Bersani paga alla coabitazione forzata con il Pdl è ricompensato dal ruolo di crocevia di ciò che accadrà nei prossimi mesi. E l’appoggio a Monti non è visto come un allontanamento dalle aspirazioni fondanti, nonostante gli orientamenti, le scelte e le azioni del governo si collochino, spesso, assai lontano dai codici iscritti nel dna del Pd. Il sostegno al governo è visto, semmai, come una necessità contingente alla situazione specifica e Bersani è stato bravo nel contenere le inevitabili spinte cetrifughe rispetto alle scelte che ha dovuto compiere.
Nell’opera di costruzione del nuovo Pd, Bersani è stato facilitato dal dissolvimento del centrodestra e dallo spegnimento della stella polare rappresentata da Silvio Berlusconi. Per quasi vent’anni Berlusconi ha rappresentato l’unità di misura della politica italiana. Nel bene e nel male. Nel bene perché ha indubbiamente avviato una fase di trasformazione del sistema politico italiano dopo il terremoto tangentopoli. Nel male, perché la tessitura del nuovo è stata caratterizzata da una degenerazione che si è riflessa nelle forme espressive di un potere che ha trasferito la democrazia nel perimetro tecnologico dei media.
Un regime spettacolare che ha cambiato il modo stesso di governare, mettendo, al posto della dialettica politica, nuovi apparati e procedure ispirate alle tecniche del marketing: alimentare i sogni trasformandoli in necessità e verità assolute, sostituire il ragionamento con le emozioni, sedurre anziché convincere. Un contagio che, in forme e modi diversi, ha infettato tutto e tutti, dando corpo a una rappresentazione pornografica della politica che si è via via popolata di personaggi improbabili, testimoni di un nuovo miracolo annunciato in maniera ipnotica dagli schermi televisivi.
Tant’è che la quota di quanti si collocano nel centrosinistra è di poco superiore a quella di coloro che si collocano nel campo opposto. Il dissolvimento del Pdl e l’eclissi della leadership di Berlusconi non hanno cambiato la collocazione politica degli italiani, ma soltanto modificato il rispecchiamento in termini elettorali.
Anche il vantaggio attuale del Pd sul Pdl, nelle intenzioni di voto, non nasce da un’espansione dei consensi vera e propria, quanto dalla capacità del partito di Bersani di offrire ragioni sufficienti ai sostenitori di centrosinistra per restare nel loro campo, e a non alimentare l’invaso degli incerti e dei potenziali astensionisti. Intanto, proprio la riconquista degli elettori disillusi pare alla base della nuova strategia di Berlusconi.
L’anomalia di un sistema che, oggi, soffre l’assenza di alternative e di una reale dialettica politica, rappresenta, purtroppo, solo l’ennesima tappa della lunga transizione italiana verso una nuova normalità. E il rischio è che nemmeno le prossime elezioni rappresenteranno quel ritorno al futuro più volte annunciato. Un pericolo, questo, che richiama i partiti all’urgenza di un rovesciamento di missione: far tornare la politica a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune.
Perché anche quando parole come crisi e degenerazione, riferite al sistema politico, s’ispirano a un sentire collettivo, esse non segnano lo spartiacque di un abbandono, semmai il contrario, ossia la consapevolezza della necessità di un ritorno ai valori condivisi di un ethos civile. Il tracciato di riforma del sistema politico non può che essere quello di dialogare con i mille rivoli in cui sono confluiti i grandi invasi politici del Novecento e che hanno dato corpo a nuove forme di partecipazione diffusa, dove il confronto delle idee e i processi di apprendimento collettivo ricoprono ancora un ruolo fondamentale nella costruzione della rappresentanza sociale e una costante tessitura del loro significato politico.
Ciò che serve al Paese per uscire dall’infinita transizione politica non è un atto isolato, che conferisca un mandato al quale rispondere solo a tempo debito, ma l’attivazione di un processo in grado di attingere dalla ricchezza delle esperienze che vivono nei territori, capace di fecondare a sua volta, e immettere, in un circuito più ampio, saperi e pensieri condivisi. La democrazia, oggi, ha ancora più bisogno dei partiti perché la crisi impone di dare risposte forti alle domande che nascono dalle spinte inevitabilmente divergenti.
E una democrazia che sceglie e decide può farlo solo se i partiti sono in grado di articolare, convogliare e orientare le istanze della società intorno a un progetto. Ma per farlo i partiti devono recuperare autorevolezza e credibilità, avere il coraggio di rompere i cerchi magici e rinnovarsi al loro interno, aprendosi a processi democratici reali. Il tempo sta per scadere e occorre che s’imponga la volontà e la determinazione di fare quelle scelte che il Paese non può più attendere.
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