Alla fine dell'anno I dell'era Renzi, gli anziani d'Italia hanno tirato un sospiro di sollievo: il loro potere, la loro ricchezza e il predominio economico sulle generazioni più giovani non è affatto a rischio.
Temevano, i vecchi d'Italia, che il governo più “young” della storia repubblicana potesse dare davvero seguito alle promesse sulla necessaria solidarietà tra padri e figli. Preoccupatissimi, paventavano che il premier quarantenne potesse metter mano alle pensioni più alte, o che provasse a tagliare qualcuno degli infiniti privilegi di cui godono da sempre. Soprattutto, erano certi che il governo lavorasse sottobanco a piani rivoluzionari per redistribuire la spesa pubblica, oggi tutta sbilanciata a loro favore, in modo da aiutare i ragazzi italiani, generazione senza più un euro in tasca, senza lavoro, zero chance e poca speranza.
Mai paura fu più infondata. Finora nessuno tra i presunti rottamatori – a parte qualche blanda dichiarazione d'intenti di Renzi e di ministre come Marianna Madia e Maria Elena Boschi – ha osato sfidare gli anziani d'Italia con riforme strutturali in grado di scalfire i loro interessi.
«Pericolo scampato, il ragazzo non ci danneggerà», ha sorriso la casta più ricca e meno generosa del continente. Non solo: qualche giorno fa i telegiornali hanno annunciato due ottime nuove per i capelli grigi. Se la Corte Costituzionale ha bocciato il mancato aumento delle loro pensioni decisa dall'ex ministro Elsa Fornero, l'Istat ha spiegato che sia nel 2014 che nei primi tre mesi del 2015, malgrado la crisi e il buco nero della disoccupazione in cui continuano a essere risucchiati figli e nipoti, gli over 55 sono stati assunti a gogo, a centinaia di migliaia: solo l'anno passato, segnala l'Istat, i vecchietti in più al lavoro sono 320 mila. La tendenza è ancora più evidente se si evidenzia il periodo 2008-20014, quello della crisi: 1,1 milioni di over 55 occupati in più e quasi due milioni di under 35 in meno.
«In Italia, da almeno una quindicina d'anni, economisti e colleghi hanno individuato uno “scontro generazionale” tra chi ha tanto (i padri) e chi poco (i giovani)» ragiona la sociologa Chiara Saraceno. «In realtà la battaglia – visti gli ultimi dati dell'Istituto di Statistica, dell'Ocse e di Banca d'Italia, e i trend fotografati da ricercatori delle nostre università – sembra finita: hanno stravinto gli anziani». La “Generazione Locusta”, che negli anni della grande crisi, dal 2008 ad oggi, è riuscita a mantenere tutte le posizioni, scaricando i costi sociali della depressione sui più giovani e spartendosi quello che resta della ricchezza del Paese.
Hanno divorato tutto, i vecchi, mantenendo il controllo dei gangli del potere pubblico, occupando ogni spazio nelle imprese private, rafforzandosi nei sindacati, nelle scuole e nelle università. Quello degli anziani, maggioranza assoluta nella seconda nazione più vecchia del mondo, s'è rivelato un esercito imbattibile. E agli under 40, sconfitti senza neanche lottare, oggi non rimane che accontentarsi delle briciole.
SEMPRE PIÙ RICCHI
Andiamo con ordine, partendo dai dati della Banca d'Italia . Giovanni D'Alessio, autore di un report assai dettagliato pubblicato due anni fa, ha analizzato la concentrazione della ricchezza delle famiglie italiane. «La distribuzione si è modificata nel tempo» spiega «a favore delle famiglie composte da anziani e a sfavore di quelle composte da giovani». Tra il 1987 e il 2008 i pensionati si sono arricchiti moltissimo, passando da un indice di 61,6 (fatto 100 la media dell'intera popolazione nazionale) a 97,8 per cento. Al contrario, dall'ingresso dell'Italia nell'euro, i giovani «vedono peggiorare decisamente», ragiona ancora D'Alessio, «la loro condizione». Oggi i ragazzi under 30 hanno meno della metà di quanto avevano i loro coetanei all'inizio degli anni Novanta, e si sono drasticamente impoveriti anche i quarantenni. I pensionati, invece, zitti zitti controllano più del doppio della ricchezza che gestivano vent'anni fa.
L'anno passato un altro studio pubblicato da Via Nazionale ha fotografato attraverso un'indagine campionaria capillare l'andamento del reddito tra padri e figli durante gli anni dell'ultima crisi economica. Ebbene, non è vero che la recessione non guarda in faccia a nessuno: se tra il 2010 e il 2012 tutti hanno visto peggiorare le loro condizioni economiche, i pensionati e gli anziani sono diventati più ricchi in proporzione al resto dei concittadini: l'indice del loro reddito equivalente è infatti cresciuto rispettivamente di sei e otto punti.
«È ovvio che i padri siano tendenzialmente più ricchi dei figli. Reddito, conto in banca e proprietà immobiliari aumentano con il crescere dell'età», dice la Saraceno. «Ma i dati dimostrano inequivocabilmente che le generazioni più vecchie concentrano sempre maggiore quantità della ricchezza nazionale. Ormai il gap è elevatissimo, non esistono paragoni in nessun altro paese d'Europa».
Analizzando le entrate e le buste paga dell'ultimo ventennio, è evidente che la forbice si è ampliata a dismisura: se dal 1991 al 2012 gli over 64 hanno aumentato il loro reddito di 19 punti, gli over 55 sono cresciuti di 18 punti. Contemporaneamente il reddito della fascia di età tra 19-35 anni è crollata di 15 punti, e quello tra i 35-44 di 12 punti.
Un disastro per i figli, un trionfo per le locuste. L'evidenza dello spread generazionale viene fuori anche analizzando altre serie storiche sui bilanci delle famiglie italiane: se i poveri nel 1991 erano distribuiti equamente tra tutte le classi d'età, nel 2012 la percentuale di disperati è raddoppiata tra i giovani under 40. Il numero dei poveri è invece stabile per i cinquantenni, ma è addirittura diminuito tra gli over 64. Sorprendente, dopo decine di trasmissioni, saggi e talk-show sul fenomeno degli anziani che non arrivano alla fine del mese.
«Siamo in una situazione estremamente delicata», conferma la Saraceno. «È vero che gli anziani a livello sistemico non mollano nulla di quanto guadagnato. Ma non solo per egoismo: se a livello collettivo non c'è solidarietà intergenerazionale, a livello familiare avviene il contrario: le redistribuzione che non fa lo Stato viene fatta in famiglia. Quando ho scritto su “Repubblica” che non volevo quello che la Cassazione mi aveva restituito, cioè l'indicizzazione della mia pensione, molti pensionati mi hanno scritto che loro non ci avrebbero rinunciato mai, perchè così possono continuare ad aiutare figli e nipoti. Detto questo, è inaccettabile che i giovani debbano dipendere dall'elemosina dei genitori o dall'eredità che prenderanno in tarda età: servono riforme strutturali che facciano giustizia. I diritti acquisiti non sono accettabili, se sono stati acquisiti sulle spalle di altri».
LA PENSIONE NON SI TOCCA!
In molti sostengono che, per ottenere maggiore equità tra vecchi e giovani, bisognerebbe cominciare a mettere mano alle pensioni più alte. È un fatto che gli anziani andati a casa con il sistema retributivo costituiscano un costo gigantesco per lo Stato. In Italia il 32 per cento dell'intera spesa pubblica finisce proprio ai pensionati: nessuno tra tutti i paesi industrializzati, dice il rapporto 2014 dell'Ocse, è così magnanimo con i suoi vecchietti. Una valanga di miliardi, oltre 272, entra nelle loro tasche ogni anno. La montagna cresce di continuo, come ha certificato l'Istat qualche settimana fa. Rispetto alla media dei membri dell'Ocse spendiamo quasi il doppio: Svezia, Norvegia, Regno Unito e Olanda spendono meno di un terzo rispetto all'Italia.
«La conseguenza è che abbiamo pochi soldi per altre spese sociali fondamentali, e pochissimi per i giovani: per l'istruzione in Europa investiamo meno di tutti, per la ricerca idem» aggiunge la Saraceno. «Spendiamo tanto anche in sanità, i cui servizi sono usati – per motivi anagrafici – soprattutto dagli anziani. Per le famiglie che vogliono fare figli non c'è quasi nulla. Chi dice, come il Pd, che il reddito di cittadinanza costa troppo, mente sapendo di mentire: in realtà nessun partito, tranne il Movimento 5 Stelle, ha voglia di effettuare una vera redistribuzione tra le generazioni. E lo dico da “locusta”, avendo 73 anni».
È noto che il problema principale riguarda il costo enorme delle pensioni retributive, quelle calcolate in base all'ultimo stipendio. Le prende la stragrande maggioranza dei pensionati di oggi (nove su dieci), che godono di diritti impensabili per chi andrà in pensione con il metodo contributivo imposto dalla riforma Dini del 1996, la cui filosofia è semplice: avrai indietro quando versato, non un euro di più. Ora, la differenza di trattamento pensionistico tra vecchi e giovani (a condizione che questi ultimi riescano a fare una carriera simile a quella dei loro padri) balla tra il 25 e il 50 per cento.
Ovviamente, il 40 per cento dei pensionati che prende meno di mille euro al mese non va toccato. Ma il restante 60 per cento viaggia su cifre più che dignitose. E se quasi un milione di italiani supera i 3 mila euro mensili, ben 213 mila fortunati prendono oltre i 5 mila euro lordi al mese. Ma anche le pensioni più basse possono nascondere realtà meno depressive: oltre quattro milioni di persone, spiega infatti l'Inps, è titolare di due pensioni, e 1,2 milioni di anziani ne ha almeno tre: le donne, grazie agli assegni di reversibilità, rappresentano la grande maggioranza di chi porta a casa più di un'entrata.
Ma stupisce, soprattutto, che il governo dei giovani non abbia ancora attaccato i trattamenti iper-privilegiati: dai baby pensionati ai militari finiti in congedo con ricchi emolumenti, dai dirigenti di Enel, Ferrovie e ex Inpdap che riusciranno ad intascare molti più soldi di quanto versato in contributi. Come ricordava Sergio Rizzo qualche giorno fa sul “Corriere”, nessuno ha pensato di intervenire sulle norme della legge Mosca, che ha permesso a migliaia di politici e sindacalisti di prendere ricche pensioni sulla base di semplici dichiarazioni avallate dal partito o dal sindacato. E nessuno, finora, ha tentato di mettere mano alle leggi che consentono ai dipendenti di Camera e Senato di andare a rilassarsi al parco con assegni pensionistici superiori all'ultimo stipendio. Le lobby delle locuste vietano anche interventi seri sui vitalizi dei parlamentari in quiescenza, che prendono somme assurde anche se hanno versato contributi per pochi giorni, mentre il fenomeno della lievitazione degli assegni di invalidità (che dal 2000 – dice il nostro istituto di previdenza – sono cresciuti del 52 per cento) sembra irrefrenabile.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti promette da tempo interventi sugli assegni alti, ma molti temono possa trattarsi dei soliti annunci. Eppure, attaccando i benefit dei centomila super-pensionati d'Italia, si potrebbero ridistribuire un bel po' dei 13 miliardi che ci costano ogni anno. Tra loro ci sono recordman come Mario Sentinelli, ex manager Telecom che prende 91 mila euro lordi al mese (tremila euro al giorno), mentre Mauro Gambaro, ex direttore generale di Interbanca, ha un assegno mensile da 51 mila euro, stessa somma che prende tutti i primi del mese il manager ex Infostrada e Telecom Alberto De Petris. Tra i nababbi anche Carlo Azeglio Ciampi, che cumula una pensione da 30 mila euro al mese come ex numero uno di Bankitalia con l'indennità parlamentare, e Lamberto Dini, che ne incassa 18 mila lordi. Giuliano Amato, membro della Consulta che ha bocciato la mancata indicizzazione delle pensioni, prende 22 mila euro di pensione, a cui aggiunge 9 mila di vitalizio che dice di dare in beneficenza. «La mia pensione è niente affatto bassa», spiegò in un comunicato. «Ma il problema italiano non è che esistano pensioni di 11.500 euro nette, ma che ci sono ragazzi che a prescindere dai loro meriti finiscono schiacciati ai livelli più bassi». Le due cose, però, sembrano più connesse di quanto sembra.
Il governo, mentre promette rivoluzioni a favore dei giovani, nei fatti sembra essersi specializzato in retromarce. Sempre a vantaggio delle locuste: la riforma della pubblica amministrazione della Madia, per esempio, ha perso per strada la norma che prevedeva il tetto dei 68 anni per i baroni universitari e dei primari, superato il quale la pensione era automatica, e la regola sulla famosa “quota 96”, che avrebbe dovuto permettere nuovi ingressi nel mondo della scuola. Qualche giorno fa l'ultimo dietrofront: Renzi e compagni hanno deciso di permettere ai magistrati di lavorare fino a 72 anni, nonostante la legge Madia prevedesse la pensione automatica per chi avesse compiuto 70 anni entro fine 2015. «Lo abbiamo fatto perché avremmo avuto vuoti d'organico incolmabili», hanno spiegato. Di riffa o di raffa, le locuste (spesso a capo di importanti uffici e procure) resteranno al comando ben oltre i settanta.
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