Vedi! Siamo arrivati Migrante, finalmente: tu e io, insieme, ad Agadez, la città di tutti i traffici, il crocevia di ogni cosa, l’inizio della speranza, forse; il tuo golgota di sabbia, certamente. Sì. Siamo arrivati in tempo per il lunedì, il giorno del Grande Convoglio. È stato davvero un lungo viaggio, due giorni in bus per salire da Niamey. Tanto, troppo. Forse hai ragione, questa è la saggezza che cerchi, invano, di infonderci: la sofferenza ci fa vivere il tempo minuziosamente, un attimo dopo l’altro. So che per te esiste. Per gli altri, per quelli che non soffrono, scivola via e forse non vivono nel tempo, non ci sono mai vissuti. Siamo saliti insieme sul piccolo bus sgangherato, io e i tuoi giovani compagni. Silenziosi, esitanti, sì anche sospettosi l’uno degli altri.
Sette posti di controllo
Sette posti di controllo c’erano su mille chilometri di strada: ricordi? I gendarmi sono venuti, gli occhi avidi, hanno guardato il mio passaporto italiano e me lo hanno reso con un gran sorriso: buon viaggio, turista. Ma per te, per voi, ah no, è stato diverso. Tutti fuori! controllo, controllo. È anche per questo che abbiamo impiegato due giorni, non solo per la strada che è uno strazio di buche: per chiudere un occhio sul fatto che siete migranti, volevano diecimila franchi Cfa, tredici euro, ad ogni posto di controllo. A te che hai detto che eri povero: vabbè, siamo fratelli, dammene cinquemila. Quante volte hai fatto quel gesto, hai visto quel ghigno, hai raschiato in fondo alle tasche partendo dal tuo paese laggiù, in fondo all’Africa? Suvvia basta! Adesso ci siamo: hai visto come è cambiato il paesaggio? Fino a Tahua c’erano luoghi dove gli animali, cavalli, cammelli, asini, mucche sono più numerosi degli uomini, dove questi non l’hanno ancora spuntata e si vedono bei campi di miglio e di sorgo verdi come la vita che cresce e pulsa e i giovani contadini affondano con lena la corta zappa nella terra. Li invidiavi vero? Tu che vieni da un paese assetato dove è inutile gettare la semente. Sai che quei ragazzi si affannano perché se il raccolto sarà buono potranno sposarsi. Forse anche tu quanto tornerai.
Questo invece è il deserto. Affondi i piedi in questa sabbia che non è pura ma venata di argilla secca e friabile, ultimo indizio del livello raggiunto dall’acqua in epoche lontane, senti un crocchiare come di una crosta di farina che si spezza. Guarda la polvere che si alza in nuvole fitte, ancora più impenetrabile per il riflesso del sole.
Il contatto col passeur
Siamo qui nella ressa della stazione dei bus, ora, aspettiamo. Tu il mediatore, è il numero di telefonino che ti è stato dato a Niamey, sai che verrà e ti metterà in contatto con il tuo passeur. Tutto funziona a puntino, tutti lavorano per te. Io sono più avanti, so già chi sarà il passeur che mi porterà nel deserto verso la frontiera libica a Sebah, privilegi di chi ha già pagato i 200 euro. Senti, non guardarmi in quel modo, io al passeur la domanda l’ho fatta: ma non senti rimorsi a accumular denaro sulla pelle di altri esseri umani, a diventar ricco sulla sofferenza? Sai che mi ha risposto con una sicurezza soffice e spaziosa da starci dentro supino ad occhi aperti? Guarda che è un uomo gentile, negli occhi ha una furbizia senza ironia e una parlata a strascico pieghevole e lunga, prima portava i turisti nel deserto in Libia, è rimasto senza lavoro, alla fame, e ha iniziato a trasportare voi: «All’inizio - ha detto - anche io avevo problemi morali, poi ho pensato che tanto questi ragazzi il viaggio lo vogliono fare, in un certo modo li aiuto, cerco di ridurre i rischi e la sofferenza. Due anni fa era diverso, c’erano i libici a trasportare, lasciavano la gente nel deserto con un inganno per farli crepare e guadagnar doppio. Ci siamo parlati, abbiamo deciso che non poteva andare avanti così e ora prima di partire i miei clienti li sfamo, fanno una doccia, do loro un telefonino perché chiamino casa. I miei mezzi hanno tutti il gps. Se c’è un guaio nel deserto vado ad aiutarli, nessuno più si perde e muore. E poi se non ci fossero loro, se non ci offrono altro, qui ad Agadez di cosa viviamo, come sfamiamo i figli?».
Da colpevole a vittima
Cosa rispondiamo al mio passeur, Migrante? Dimmi, per favore, come posso farlo sentire colpevole. In questa disperazione che lui stesso giudica irrimediabile quanto più è liscia e senza appigli da debitore diventa creditore, da colpevole anche lui vittima.
Non avrai il tempo di vedere la città, tu, neppure il famoso minareto di sabbia che spunta come la torre Eiffel sopra tutto. Sai, è meglio che tu resti nascosto, Migrante, nella stanza che ti ha assegnato il passeur, non puoi andare in giro lestamente come me sui kabou kabou, le moto taxi. Non è un buon momento questo, il ministro dell’Interno è appena venuto ad Agadez, nel Nord dei tuareg sempre infidi, sempre ribelli, ha gridato, strepitato: dobbiamo metter fine a questo scandalo della migrazione!
Le finte retate
Allora la polizia ha fatto retate, arrestato qualche passeur, sequestrato un po’ di pick up che stanno immobili, prede in lunga fila nel cortile del commissariato. Ma lo capisci anche tu, è solo un po’ di scena, il mio passeur mi ha raccontato che sono stati proprio i poliziotti ad avvertirlo, li paga bene: vattene, tira aria brutta, parti con i tuoi mezzi per qualche giorno, non farti vedere. E infatti anche oggi il Convoglio si farà. Un centinaio di mezzi, anche più, migliaia di partenti, la vena che pulsa e non si esaurisce mai. Gli arrestati tra due mesi escono.
Migrante, ma lo sai che tu qui sei il re, un re povero, caricato come un montone su un pick up, ma senza di te non ci sarebbe nulla in questa città: niente auto di lusso, niente pick up, bar, niente prostitute e alcol e droga e negozi ripieni, niente convoglio del lunedì, nessuna tangente per la polizia. Perfino i poliziotti tu rendi ricchi. Pensa. Sei tu che fai vivere tutto questo con i tuoi poveri denari di disperato, alimenti una economia intera.
Quattro anni fa ero qui, la città intontita dalla guerra, dalla rivolta dei tuareg, era una città morta. Le strade vuote, i negozi sbarrati, l’aeroporto con la pista piena di immondizie. Nell’albergo, l’albergo della pace, pensa, ero l’unico cliente, mi guardavano come un totem, l’augurio che stavano tornando i bei tempi dei turisti. Poi siete arrivati voi, i migranti e tutto il mondo si è rimesso in moto.
L’economia che riparte
Guarda adesso queste strade ingombre di una folla stravolta, estenuata, venuta da ogni dove, avanzi di un Continente. Perfino l’aeroporto hai fatto riaprire, dagli americani, che ci tengono una base militare e la gente si chiede che cosa stanno a fare. E ci sono i cercatori d’oro che partono per le arcigne montagne dell’hair, il posto più pericoloso del mondo. Lo so lo so, tu non ami l’Africa dove sei nato e quella che devi attraversare, la vuoi dimenticare e la sola funzione della memoria è invece di aiutarci a rimpiangere. Per te, per voi il mondo è di là in su che comincia, questa è ormai solo un’appendice necessaria, dolorosa da attraversare a lunghi passi, quasi in fuga, senza girare gli occhi. La carta del pianeta la scoprirai al di là del mare, i segni del futuro ti aspetti di decifrarli laggiù, se ci arriverai, da quelle vie di città di cui sai solo pronunciare il nome come una magia, aspetti di arrivare nella città che sarà lo spiraglio di tutte le città, non certo questa casbah grigia e marrone, porosa come un osso spolpato con segmenti colorati di immondizia, di avvizziti cespi di erba. Non è vero che perduta la tua terra non vali più niente.
Alcol e prostitute
Prima o poi anche tu Migrante dovevi arrivare al bar «Dounia», l’ufficio dei passeur. Oppure ti hanno indicato quello delle «arénes» proprio all’ingresso del palazzetto dove si svolgono le gare di lotta tradizionale? Non importa: sono eguali, infilate due porte, un corridoietto, una cucina sudicia dove miagola disperata una gatta e sbocchi in un mare aperto, resti stordito, macchie sospette sui muri azzurrini, luce, calore, su nel naso pizzica un odore micidiale: urina, sudore, alcool cattivo. Gente, molta gente sopra e sotto le panche, sbraitano, cantano, bevono. E vomitano. Dovresti esser lì quando entrano in processione solenne alcune prostitute enormi, elefantiache, si muovono, per la mole, ondeggiando come navi, hanno boubou che sembrano tessuti d’oro, e braccia cariche di monili. Insultano, lanciano inviti volgari, fanno sussultare il sedere queste signore carnali, nessuno replica, le circonda una sorta di preoccupata venerazione. Sono le prostitute dei passeur toubou, la popolazione di confine tra Niger e Libia, i più ricchi e feroci, sono loro che le vogliono così, grosse.
Guarda! Entra un trasportatore di uomini, il turbante bianco, muove a scatto i fissi occhi tondi e la barbetta appuntita, resta sempre, anche quando ride o beve una birra dopo l’altra, a orecchio teso come un rapace da preda. Tutto quello che guadagnano e sono cifre enormi, i toubou lo spendono in prostitute e alcool, vivono in questi due tre bar della città. Sì, siamo tutti davvero in fondo a un inferno dove ogni attimo è un miracolo.
Schiere di bambini
Adesso io e te dobbiamo parlare dei bambini, dei bambini che a torme in strada vestiti di stracci tendono mani sudice a scodelle, i piccoli migranti affittati. Non possiamo far finta di niente. Per descriverli sogno una lingua in cui parole come pugni fracassino le mascelle, un pensiero, uno solo! Perdio che mandi per l’indignazione in frantumi l’universo. Agadez è la città dei piccoli migranti affittati. Le famiglie li cedono a false madri che li portano, sette otto per volta, nei Paesi del Golfo, in Arabia Saudita, in Algeria a mendicare. Vengono dalla regione di Kanthe dove i confini sono così labili che non ti accorgi di passare dalla Nigeria al Niger.
Un giorno bisognerà scendere in quel cuore di tenebra, ficcare gli occhi e guardare. L’affitto vale tremila franchi cfa al giorno, meno di cinque euro, loro guadagnano mendicando per la loro finta, sozza madre anche due tre volte di più. Ad Agadez attendendo di partire ti seguono, hai visto?, ovunque con un pigolio di zanzare, si allenano a mendicare, portano già denaro per pagare il passeur. Sono entrato nel cortile dove vivono nascosti con le false madri: un’aria sporca, purulenta, dolciastra, putrefatta e infantile che vi cuoce sgorga da cumuli di stracci e immondizie, cibo putrefatto, razzie nelle discariche.
Il commissariato
Ma non è quello che ti soffoca: è il pianto collettivo contemporaneo di decine di bambini, il pigolante urlo del dolore assoluto. Davanti, proprio davanti, all’altro lato della strada, non puoi crederci!, c’è la sede della Croce rossa, accanto il commissariato centrale di Agadez. Un poliziotto grasso, in divisa, dorme sdraiato in fantastico equilibrio sul sellino di una moto proprio vicino all’ingresso del cortile infame.
Ho parlato con una delle false madri, ti racconto: mi ha spiegato che quando arriverà in Arabia Saudita legherà le braccia dei bimbi nascondendole sotto la tunica così sembreranno dei mutilati e poi spargerà dello zucchero sul volto: attira le mosche a legioni, la gente si intenerisce subito. È meglio affittare portatori di handicap, autistici, storpi incassano di più. In che mondo viviamo, tu e io? in questo preciso istante migliaia di bambini così sono in viaggio attraverso il deserto, mentre io con la penna in pugno, cerco invano qualche parola che commenti la loro agonia.
Nel deserto
È mattino, lunedì: è l’ora del convoglio, per te e per me l’ora del deserto. Ricordando mi accorgo che è uno di quei vortici da cui si srotola la spirale del tempo. Eccoci qui, insieme, ad annaspare nel buio come se il mattino non volesse più cominciare, come se non riuscissimo a spiccicare gli occhi dal sonno in questo immenso cortile del quartiere dei depositi dove ci hanno nascosti in attesa che arrivino i pick up e partire per la barriera. Poi ci gridano di montare e nel formicolare di ombre tocco qualcosa di solido, infine, il fondo del cassone.
Vieni, Sali! Ecco che adesso il buio comincia a diventare trasparente, a filtrare le forme e i colori. Tutto a un tratto non siamo più soli nella via, la nostra colonna di una decina di mezzi marcia sullo stradone affiancata a un’altra. Il nostro mondo sarà il deserto che dovremo attraversare, questo spazio senza confini non antropomorfo in faccia al quale e soltanto lì forse l’uomo è uomo. Lì dovremo aprirci la strada senza mai uscirne fino al mare, quella strada segreta che solo noi conosceremo e che passa attraverso tutti i deserti, che unisce ogni deserto in un solo deserto, ogni luogo del mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi del mondo.
So che hai paura, so che avete paura. Si stenta a credere fino a che punto la paura aderisca alla carne, le rimane incollata, ne è inseparabile e quasi indistinta. Andiamo verso la barriera del controllo, ti accompagnerò fino al primo dei due pozzi lungo i mille chilometri che portano alla Libia, quello che si chiama Itchè Tenerè, l’albero del Tenerè. E poi ci sarà ancora per voi Dirkou, con le sue miniere di sale.
L’ultima cosa che la città ci lascia è il cadavere candido di una pecora abbandonato lungo la pista. Cadendo da un pick up il collo si è ritorto e spezzato in modo strano e ora ci guarda da sotto in su, riversa, con gli occhi infinitamente tristi della morte, mentre il calore del sole già la gonfia.
I banditi tuareg
Lo so che hai paura, sono mille chilometri, e i banditi tuareg che ci attendono appena fuori la città. Non abbiamo nessuna ricchezza, ma a loro talvolta basta anche un vestito più colorato degli altri. La paura non puoi farci niente sarà il nutrimento della tua vita. Sei gonfio, ricolmo, obeso di paura. Ci hanno messo in trenta su un pick up, hanno alzato delle assi per renderlo più sicuro.
Senti cosa dice il passeur, è importante: se qualcuno cade non pensiate che ci fermiamo, sono affari vostri, nel deserto gli autisti hanno l’ordine di spingere a tutta velocità e non fermarsi mai. Non dimenticatelo. Guarda, guarda migrante come funziona bene il sistema del passaggio: l’autista del nostro mezzo sporge un biglietto al capo della postazione dei gendarmi, è il lasciapassare dove è scritto che il nostro passeur ha pagato 150 euro a veicolo. Dei gesti delle dita per segnalare quanti veicoli sono «autorizzati». Nemmeno si rallenta, ora si può andare.
Ci scrutiamo nella luce crudele come sorpresi di trovarci in tanti. E nel nostro guardarci resta sospeso l’interrogativo del giorno che inizia. E se la vostra forza fosse questa forza d’animo, ovvero il coraggio di non figurarsi in modo diverso il vostro destino?
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