Un decennio dopo la riforma sanitaria del 2012 introdotta dal conservatore David Cameron, i cittadini del Regno Unito si ritrovano un servizio sanitario nazionale privatizzato e meno efficiente. Lo dimostra una ricerca pubblicata ieri dalla rivista Lancet, che ha misurato l’effetto dell’esternalizzazione dei servizi sanitari inglesi sul numero di morti che si sarebbero potuti evitare con cure più efficaci e tempestive, la cosiddetta «treatable mortality». I ricercatori Benjamin Goodair e Aaron Reeves dell’università di Oxford hanno esaminato i dati riferiti a 645 mila appalti delle 173 Clinical Commissioning Groups (l’equivalente delle nostre Asl) assegnati tra il 2013 e il 2020. Confrontando i dati amministrativi e quelli sanitari per ciascuna area, hanno stabilito che un aumento dell’1% nella spesa sanitaria appaltata ai privati corrisponde a un aumento dello 0,38% nel numero di decessi evitabili con terapie migliori, cioè 0,29 decessi ogni centomila abitanti.
IN TERMINI ASSOLUTI, significa che la riforma sanitaria del 2012 ha interrotto il declino della mortalità curabile, che da allora ha ripreso a crescere anno dopo anno. «La mole di dati usata ha permesso la prima analisi rigorosa di una delle riforme sanitarie più contestate della storia inglese recente», spiega Goodair. «Mentre c’è chi sostiene che la riforma avrebbe migliorato le prestazioni dei servizi sanitari aumentando la concorrenza, i nostri risultati rafforzano i timori fondati che essa avrebbe condotto a risparmi sui costi e un peggioramento delle condizioni di salute».
Per il Regno Unito rappresenta più che un dato statistico. Il servizio sanitario nazionale inglese, il mitico National Health Service (Nhs), è una sorta di monumento allo Stato sociale. I film di Ken Loach e il pessimo ricordo lasciato dal governo Blair fanno spesso associare l’immagine del Regno al liberismo selvaggio. In realtà, in campo sanitario il Regno Unito è stato a lungo il modello per i governi di sinistra.
IL NHS È STATO infatti il primo esperimento su larga scala di servizio sanitario pubblico e universale finanziato dalla fiscalità generale. Persino nell’isola dei capiscuola liberali Adam Smith, Stuart Mill e Von Hayek, i governi hanno a lungo condiviso l’idea che della salute dei cittadini debba occuparsi solo lo Stato. La tesi iniziò a circolare nel 1942, quando l’economista William Beveridge (con il contributo a lungo trascurato della moglie, la matematica Janet Philip) pubblicò il «Rapporto sulle assicurazioni sociali e sui servizi affini». Mentre su Londra piovevano le bombe tedesche, l’economista definì gli obiettivi sociali che avrebbero dovuto garantire una società più giusta una volta finita la guerra. A differenza di quanto avvenuto con la pandemia, il Regno Unito uscì davvero migliore dal conflitto: con il National Health Service Act del 1946 l’Inghilterra si dotò del primo servizio sanitario nazionale universale su cui molti Paesi modellarono le loro riforme sanitarie nei decenni successivi.
MA ANCOR PRIMA delle sue ricadute politiche, il «rapporto Beveridge» aveva già conosciuto una diffusione sorprendente, con centinaia di migliaia di copie vendute in patria e all’estero. A scopo di propaganda, il rapporto fu infatti tradotto e distribuito dagli eserciti alleati nei Paesi occupati dai nazifascisti, diventando assai popolare nei movimenti di resistenza e inviso ai governi di Italia e Germania. L’Italia ci mise oltre trent’anni, ma con la riforma del 1978 anche da noi entrò in vigore un servizio sanitario di tipo «Beveridge».
IL NHS È PASSATO attraverso vari aggiustamenti che, nonostante le prime aperture ai privati, non ne hanno sconvolto l’impostazione nemmeno sotto il governo Thatcher. Il colpo più forte è arrivato per l’appunto nel 2012, l’anno-spartiacque preso a riferimento dalla ricerca di Lancet. Fu allora che il governo liberal-conservatore di David Cameron introdusse l’Health and Social Care Act, cancellando il “National Service” persino dalla dicitura. Era la traduzione sanitaria della teoria della «Big Society» cameroniana: un’idea che avrebbe dovuto destare più diffidenza, visto che proveniva da un allievo della stessa Lady di Ferro secondo cui «la società non esiste, esistono solo gli individui».
CON LA RIFORMA Cameron, la salute dei cittadini smise di essere responsabilità del ministro: le cure primarie furono affidate ai Clinical Commissioning Groups locali governati dai medici di base (in maggioranza liberi professionisti), con piena facoltà di rivolgersi alle imprese per acquistare servizi sanitari da offrire ai cittadini in nome della «libertà di scelta». Qualcosa di simile a quanto avvenuto in Lombardia sotto la giunta Formigoni. A poco servirono le proteste delle associazioni mediche e della società civile. I laburisti promisero di abrogare la riforma non appena tornati al potere, e sono ancora in attesa.
Il risultato fallimentare di quella riforma oggi si misura in una pandemia che ha fatto 180 mila vittime, persino peggio che in Italia, e nelle migliaia di morti evitabili riportate da Lancet. «I risultati di questa ricerca arrivano al momento giusto, perché l’organizzazione delle agenzie sanitarie britanniche sta per essere rivista», spiega Aaron Reeves, uno dei due autori dello studio di Lancet. «Perciò, adesso è fondamentale esaminare da vicino il ruolo del settore privato nell’Nhs».
Come da noi, anche nel Regno Unito la crisi del Covid-19 ha suggerito al governo una riforma della sanità territoriale, denominata «Health and Care Act 2022» e approvata nello scorso aprile. La riforma fa qualche marcia indietro rispetto al 2012. L’agenzia che vigilava sui Clinical Commissioning Groups, ad esempio, non avrà più il compito di promuovere la concorrenza all’interno del Nhs. Sul ruolo dei privati la riforma dice poco o nulla, nonostante i pessimi risultati. «I nostri dati – avverte però Reeves – suggeriscono che un’ulteriore privatizzazione del Nhs sarebbe un errore».
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