Il ghiaccio della Marmolada che crolla, il fuoco di Roma che ammorba, l’acqua del Po che manca, l’aria africana che incombe, il gas della Russia che si interrompe, il virus resiliente che ci perseguita, la povertà crescente, l’inflazione galoppante. E, sullo sfondo, la guerra, ormai divenuta parte della quotidianità, che alimenta insicurezza e angoscia. Questa è l’estate del nostro scontento; una serie di minacce con cui cerchiamo di convivere, facendo anche un po’ di vacanze e di turismo (aerei permettendo) per recuperare l’astinenza degli anni passati. In attesa di un autunno che tutti dipingono freddo, e di un inverno all’insegna di accorgimenti di risparmio energetico che sei mesi fa sarebbero stati impensabili.
Emergenze, quindi: naturali, economiche, sociali, militari. Che si sommano, si accavallano l’una sull’altra, e aggiungono paura a paura. Che mostrano, ciascuna, i nostri errori passati, le nostre contraddizioni presenti, i nostri problemi futuri. Che, tutte insieme, hanno come primo effetto la delegittimazione strisciante dei nostri assetti civili.
Non è all’ordine del giorno un ritorno del populismo, che nelle forme note appartiene più al passato che al futuro, dimostratosi debole, confuso, velleitario. Più in generale è tutta la politica a essere in difetto, davanti alle emergenze divenute sistematiche. Lo si vede dall’astensione elettorale, con cui i cittadini mandano un messaggio di disincanto e di stanchezza. E lo si vede anche dal fatto che nessuno tenta di trasformare quelle emergenze in “eccezione”: la rivoluzione — ma di chi? e verso dove? — non è alle porte. Esige troppa politica, troppa fiducia in un progetto, in un obiettivo. Ha bisogno di leader veri, che non ci sono.
Tanto meglio. Ma quella che manca è anche la politica normale, quella che deve stare nelle istituzioni democratiche disegnate dalla costituzione repubblicana. Nel governo e nel Parlamento, nella maggioranza e nell’opposizione. E quella che sta nei partiti, il sale della democrazia, il raccordo fra la società e il potere politico, l’espressione degli interessi e dei valori (legittimamente differenziati) della società.
Per fare fronte ad alcune emergenze — non tutte si erano ancora manifestate — i partiti hanno dato vita a un governo di quasi unità nazionale, sacrificando, temporaneamente e malvolentieri, le proprie specificità (affidate a iniziative parlamentari non vincolanti per la maggioranza). Ma ora, davanti all’accumularsi dei problemi, si manifesta una dinamica nuova, duplice: da una parte la tentazione di sottrarsi alla responsabilità — a cominciare dai Cinquestelle, ma con una possibile reazione a catena, presente o futura, in ogni circostanza utile — e dall’altra la richiesta, strumentale e al limite provocatoria, di interventi economici e sociali tanto ingenti quanto scoordinati, avulsi da disegni politici organici, all’insegna del “prendere o lasciare”.
Nell’una o nell’altra strategia sembra che prevalga la ricerca di una nuova verginità, che faccia dimenticare agli elettori i mesi o gli anni passati al governo. Ma al di là del calcolo elettorale probabilmente sbagliato di un partito, o di più di uno, il vero errore sta nel fatto che le difficoltà del momento non sono state interpretate dai partiti come un’occasione di nuova legittimazione, di nuovo protagonismo, per mostrare agli italiani che la politica è presente non soltanto con un premier stimato ma solitario.
Sembra che sulla proposta di riforme prevalga la paura dello scontento sociale, la paura delle paure, che motiva variamente alcuni partiti a marcare la propria identità, in modo difensivo più che propositivo. Un modo, in definitiva, inconcludente per tutti: uno sfilacciamento politico. È questa la forma nostrana di una crisi della politica che in altre modalità interessa anche Usa, Francia, Regno Unito. Alle emergenze e al disagio della società rischia ora di sommarsi il disagio della democrazia, minacciata non certo dalla esplosione quanto dalla implosione, non dalla rivoluzione ma dalla propria involuzione. Per un ritorno della politica, oggi eclissata, bisognerà aspettare, con parecchia fortuna, la prossima legislatura.
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