Un viaggio nelle carceri italiane e nei loro problemi. Un viaggio anche dentro di noi per capire l'idea che gli italiani hanno del loro sistema penitenziario. "Chiusi dentro" è il podcast (8 puntate) che uscirà venerdì prossimo sul sito di Repubblica e degli altri quotidiani del gruppo Gedi in collaborazione con l'associazione Antigone. Oltre un anno di lavoro e 40 interviste per spiegare luci e ombre di un pezzo importante della nostra società. Ecco quattro testimonianze di detenuti che ce l'hanno fatta a reinserirsi nella società.
Il sistema penitenziario italiano è governato da buone norme. Prevede che i detenuti debbano solo essere privati della libertà, senza subire ulteriori afflizioni. E che vengano messi nelle condizioni di recuperarsi. Di fatto però, oggi, le nostre prigioni sono "discariche sociali" piene di gente che viene dagli strati più deboli della società, dove il 30% dei 53mila detenuti è dentro per reati legati alla droga e il 15% è tossicodipendente. La recidiva resta altissima (70% e più) ma scende di molto (sotto il 30) nei casi in cui i detenuti usufruiscono di possibilità di lavoro (appena il 20%), scuola e iniziative culturali. Purtroppo, la maggioranza degli italiani ha un'idea piuttosto vendicativa del carcere come strumento di pura "retribuzione" e di allontanamento di chi ha sbagliato. E la politica ha sempre assecondato questa tendenza temendo un giudizio sociale riassunto nella tipica frase: "Quei delinquenti sono dentro a fare la bella vita a nostre spese". Così, le nostre prigioni, nonostante il grande lavoro di operatori e volontari, restano luoghi di sofferenza e, a volte, come si è visto a Santa Maria Capua Vetere, di incomprensibile violenza.
L'ex camorrista: "Così sono diventato attore per Garrone"
Reality e Dogman, due grandi film che in comune la regia di Matteo Garrone, ma anche la presenza di Aniello Arena, attore napoletano pluripremiato. Ma nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il carcere. Arena prima che attore è stato detenuto dopo una condanna all'ergastolo per aver partecipato alla strage camorrista di piazza Crocelle, a Napoli. Ha girato le carceri di tutta Italia e per anni è stato un detenuto difficile: risse, scontri, un rapporto complicato con l'autorità. "Ma poi ho scoperto il teatro e a quel giovane Aniello che era in me ho iniziato a dare dei calci in testa", racconta. Arena e il teatro si conoscono a Volterra grazie ad Armando Punzo, regista partenopeo che a partire dagli anni '80 ha portato la recitazione in carcere con la sua Compagnia della Fortezza. Dopo mesi di esitazione e passi indietro, Aniello si dà una seconda opportunità e quel giovane rissoso e difficile inizia a scomparire. "Quando sono entrato in carcere neanche sapevo l'italiano. Lì ho scoperto che in italiano si dice basilico e non vasinicola, sedano e non accio". La storia di Aniello dimostra che il cambiamento fa del bene a sé e agli altri. Ma questo è stato possibile solo grazie ad un esterno come Punzo, che da più di trent'anni crede negli altri e offre alternative. Lo sa anche lo stesso Aniello: "Ho girato molte carceri, e sembrano fatte apposta per incattivirti anziché migliorarti. Il sistema non incoraggia il tuo cambiamento.
L'ex ergastolano: "Tre lauree in cella e ora scrivo libri"
Carmelo Musumeci ha 66 anni e vive a Bevagna, nella campagna umbra del Montefalco e del Sagrantino. All'attivo ha una carriera criminale iniziata a 16 anni e culminata nel 1992 con la condanna all'ergastolo per un omicidio di stampo mafioso. Oggi è molto cambiato e parla di perdono e seconde opportunità. Musumeci spiega che "anche il peggior criminale può cambiare, ma lo devi far sentire in colpa". Una delle maggiori criticità dell'attuale sistema penitenziario italiano è proprio la sua incapacità di far sentire colpevole chi ha sbagliato. Succede perché celle sovraffollate, attività formative carenti e una politica poco coraggiosa impediscono un adeguato reinserimento dei detenuti. Musumeci lo spiega bene: "Il criminale ha paura solo del perdono perché è lì che inizi a cambiare. Io ho cominciato quando un operatore mi ha abbracciato". Negli ultimi trent'anni ha lottato in prima linea contro l'ergastolo ostativo, riservato a chi come lui ha commesso omicidi di stampo mafioso. Se oggi la Corte costituzionale ha messo fuori legge tale provvedimento è anche grazie a lui, primo ergastolano ostativo a ottenere un permesso premio. In carcere Musumeci ha preso tre lauree e ha scritto nove libri di taglio autobiografico. La sua missione è diventata quella di pensare a un carcere migliore. Per il bene dei detenuti che verranno, certo, ma anche di tutta la società che verrà.
L'ex pusher: "Parlo agli studenti di caduta e riscatto"
"Il carcere, com'è, non produce reinserimento. Chi cambia lo fa nonostante grazie alle persone speciali che incontra. Io le chiamo: relazioni significanti". Come mai un ex detenuto di 49 anni, di cui 14 trascorsi in galera, usa parole così? Carlo Scaraglio, genovese, laureando in sociologia, gira le scuole del Trentino per raccontare ai ragazzi la sua storia per l'associazione "Dalla Viva voce". Le "relazioni significanti" di Carlo sono state una dottoressa del carcere di Marassi a Genova che gli suggerì di andare a studiare nel carcere di Pisa; i professori che lo hanno accolto e seguito in Toscana; un prete e una suora che lo hanno nominato "sacrestano" sul campo e, adesso, quelli di "Dalla viva voce". "Quando decidi di cambiare - spiega - il carcere quasi ti si rivolta contro. Gli agenti ti guardano male, pensano che vuoi diventare dottore per fargliela pagare... E, spesso, anche gli altri detenuti, ti trattano da diverso, se non da infame". Neanche Carlo s'era voluto bene. A 18 anni lo prendono che gioca a pallone in un parco con 4 grammi di fumo in tasca. Lo sbattono a Marassi. Il suo racconto dell'ingresso va ascoltato: "Sembrava un alveare a 4 piani, tutti gridavano... Io piangevo e non capivo niente". Poi ancora dentro e fuori: 5 anni a Marassi senza vedere un operatore e la condanna più pesante: 12 anni. Ma ne basta uno per capire che stava buttando via la sua vita e incontrare le sue "relazioni significanti".
L'omicida: "Racconto in poesia la prigione-giungla"
Si può finire in carcere senza essere criminali per la conseguenza di un gesto. Federico Mollo ha ucciso un uomo con una coltellata. Non voleva farlo, voleva difendere una donna picchiata. Ma per la legge era omicidio volontario: 13 anni e mezzo pur con le attenuanti. Da quel giorno, tra Velletri e Rebibbia, lo scopo della sua vita è diventato non farsi cambiare dal carcere, non diventare davvero cattivo. Anche perché fuori c'era ad aspettarlo un figlio di dieci anni. C'è riuscito, Federico, senza mai negare di aver fatto il male ("il pensiero di aver ucciso mi seguirà tutta la vita"). Un giudice gli ha tolto tre anni di galera riconoscendogli la provocazione. Il resto l'ha dovuto fare da solo: con i libri, la musica, la poesia. Le armi "interne" che era riuscito a costruirsi. Adesso è fuori e fa il giardiniere. Lui, grande come un armadio, il sorriso pronto e una gran voglia di ricominciare. Ma dentro è stata dura. C'è una poesia (ne ha scritte tante, tutte in romanesco) che paragona il carcere alla giungla: le guardie sono coccodrilli (cattivi in agguato) e giraffe (che controllano, vedono tutto, ma chiudono un occhio). I carcerati sono scimmiette (che sfuggono), leoni (che ti sbranano), iene (che ridono quando stai male) e serpenti. Federico, forse, si mette tra gli elefanti "che non rompono.... Ma non vonno manco li guai..". Di sicuro, lui è quello "...che gli è caduto addosso il suo destino... e sta giungla non gli serve a gnente...".
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