Il gran testo di Simone Weil del 1943 e una vicenda seria di oggi Caro direttore, poco prima di morire nel 1943 a Londra, Simone Weil scriveva Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano che, nell’immediato, era destinato all’attenzione del generale De Gaulle, simbolo, nella Francia occupata, «della fedeltà della Francia a sé stessa».
Egli, però, non ebbe mai tempo di leggerlo e nessuno della sua cerchia lo portò all’ordine del giorno. L’importanza del testo, cui sarebbero stati dati altri titoli, da L’Enracinement a La prima radice, è nota: decretata da Camus nel 1949, sottolineata da Eliot nel 1952 e prontamente colta dalle Edizioni di Comunità nella traduzione di Franco Fortini nel 1954. Scontiamo quella mancata lettura soprattutto in Europa e in questi decenni in cui si sarebbero avverate, in assenza di chiaroveggente buona volontà, le previsioni di una deriva politica delle nazioni culturali, rassegnate alla copertura militare di un’economia elitaria di sfruttamento del pianeta che il progresso tecnologico rendeva modello universale e provvidenziale anche agli occhi di antiche istituzioni religiose e di recenti entità politiche nate per contrastarla. Perché era decisiva? Per la riflessione spassionata sull’Occidente, sull’ Europa, sul moderno e la sua politica giuridica ed economica subalterna agli interessi capitalistici, sullo svilimento del lavoro e dei luoghi, e per la limpidezza dell’intento.
Quale questo intento? La sostituzione della nozione di “diritto” con l’idea di “dovere”. Un capovolgimento, simile a quello che fa passare Dante e Virgilio dall’imbuto infernale alle condizioni della risalita purgatoriale: a capovolgersi, infatti, è il rapporto con la Legge proprio di ogni “essere umano”. Il senso della giustizia che ciascuno in sé stesso nutre non si esplica esteriormente come rivendicazione, per quanto sacrosanta, dinnanzi a un’autorità mondana accettata come assolutamente legittima, ma agisce interiormente, come obbligo originario, “legame” - l’equivalente della “radice” nell’ordine naturale - che ogni essere umano avverte nei confronti di se stesso e del mondo che lo circonda. Se il “diritto” elemosina l’uso della libertà individuale come fosse un bene che è il potere politico a largire, l’“obbligo” esercita la proprietà inalienabile di quel bene che coincide con il riconoscimento, dentro sé stessi, del nomos di cui parla la Lettera agli Ebrei (8,11): “tutti infatti mi conoscono, dal più piccolo al più grande” che è il nomos scritto nel cuore di Antigone, il nomos nell’anima.
Ma cosa succede se qualcuno osa agire secondo un nomos che avverte come universale esigenza, ma confligge con la legge positiva? La questione si pone da qualche migliaio di anni e non è ancora stata risolta. Chi avverte il proprio dovere e in base a esso agisce sa, come Socrate, di poter essere colpito dal nomos positivo. Ma, d’altra parte, questo si trasforma in puro arbitrio e violenza se non riconosce come proprio indispensabile contrappeso quel nomos nell’anima, se, anzi, considera propri mortali nemici proprio coloro che gli si oppongono in forza di quest’ultimo, che lo si condivida o meno.
Il caso di Alfredo Cospito ci pone di fronte a questa situazione. Come si giustifica, infatti, una condanna permanente al 41bis – tipo di detenzione destinata ai mafiosi per indurli al “pentimento” e quindi temporanea - per strage di stato mai commessa (l’attentato del 2006 non ha fortunatamente provocato né morti né feriti) in un Paese dove molti colpevoli delle stragi di stato, quelle vere, sono rimasti impuniti? Perché tale condanna, nonostante perplessità e critiche giunte da molti giuristi, è stata recentemente riconfermata eliminando la possibilità di ogni futura modifica, pur davanti allo sciopero della fame che il condannato sta affrontando da oltre due mesi e che, se dovesse continuare, renderebbe esplicita quella che è di fatto una condanna a morte? Di che cosa ha paura lo Stato? Forse si vuol dar prova di un controllo autoritario per dissuadere da dissensi e proteste future, anche a costo di una vittima? O confida nel fatto che lo statuto di “martire”, cioè di testimone, non abbia più alcun senso e corso? Se l’accanimento contro Cospito dovesse proseguire esso sarebbe davvero il segno di una nostra profonda crisi spirituale, non solo di civiltà giuridica.
Il segno di un appiattimento dell’Europa su modelli asiatici, del pensiero critico sull’obbedienza, dell’intelligenza su quella artificiale, spacciandola per “oltre” o “post-umano”. Il segno della rinuncia all’unico tratto distintivo della intelligenza europea: l’obbligo nei confronti del nomos nell’anima che trascende l’autoconservazione. Ma non dobbiamo disperarci perché, evidentemente, i testimoni esistono e, come diceva san Paolo ( Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 10) citato da Simone Weil, “l’efficacia si perfeziona nella debolezza”.
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