Sotto la coltre mortifera della pandemia, l’orizzonte è scomparso. Chini sull’oggi deprimente, impellente, è come se non avessimo più domani. Come nave che nella nebbia indugia in rada in attesa di vedere avanti, ci manca la prospettiva. Ma la pandemia ha solo squarciato il velo, disvelando il vuoto: perché già il futuro ci era venuto meno, ed era il suo simulacro cui guardavamo, in cui la tecnologia sceglie al nostro posto, finalmente al di là della Storia. Ma noi siamo nella Storia e dobbiamo «riprenderci la vita, la gioia e l’abbondanza», riprenderci la Politica.
LA POLITICA ha bisogno di noi, una politica che torni potente a pensare e a costruire futuri. Ci sono due prospettive rispetto alla Potenza. Una interna, che coincide con la sua espressione e il suo esercizio, l’altra esterna, che corrisponde alle aspettative di chi la osserva. La politica, nelle forme che conosciamo da due secoli e mezzo, è oggi divenuta impotente rispetto a entrambe queste prospettive. La crisi di potenza rispetto al suo esercizio ha la forma dell’entropia di un sistema chiuso, che disperde progressivamente le sue energie.
LE NOSTRE aspettative di cittadini insistono nell’illusione che il sistema della delega, che solo e soprattutto nella sua forma deliberativa, normativa e legislativa, qualora interpretato con giustizia e competenza, possa garantire una democrazia compiuta, al limite della felicità generale (il compimento della soddisfazione individuale dell’individuo libero). Entrambe queste derive rischiano il punto di non ritorno.
Perché la reversibilità virtuosa di questo meccanismo viziato è possibile solo nei termini di immissione di potenza (opzioni, azioni, presa in carico responsabile, progettualità), di una cittadinanza partecipante. Tre sono i modi di declinare la partecipazione: consenso elettorale, deliberazioni partecipate e, nel senso latino di partem capere, prendere una parte del mondo trasformandola in proporzione alla propria potenza. La prima forma è ormai indebolita nei numeri, la seconda è raramente attuata, la terza rappresenta la vera sfida.
Ci piace qui introdurre una parola greca per aprire a un nuovo paradigma del rapporto tra governati e governanti: isocrazia, termine da interpretarsi non certo presupponendo uguale (isos) potere (kratos) fra i cittadini, ma rivendicando il fatto che ugualmente tutti i cittadini dispongono a vario titolo di capacità e potenza di cittadinanza attiva variamente esercitata in termini di controllo, progettazione, tempo libero disponibile, autogestione, volontariato, capacità d’inchiesta, e via dicendo. Sperimentare l’isocrazia implica inoltre un processo di valorizzazione della dignità del cittadino come soggetto della democrazia che lo riscatta dal diffuso ruolo di semplice contribuente e passivo utente di servizi.
Se la politica è divenuta impotente è perché si è ridotta ad amministrazione delegata, ha perso progettualità, limitando al consenso la partecipazione. Il 14 novembre 2019, a Bologna, un movimento come quello delle «Sardine» ha sorprendentemente annunciato la possibilità di questo nuovo paradigma, passando dalla protesta dei movimenti fondati sulla critica all’inadeguatezza della politica a soddisfare i bisogni dei cittadini, alla proposta indicata nello slogan «la politica ha bisogno di noi». Un’implicita ma chiara adesione all’esigenza di superare l’entropia della politica presente.
TRALASCIAMO l’indebolimento progressivo delle Sardine e assumiamone fino in fondo il messaggio sistemico. La cittadinanza attiva è marginale o inascoltata, i corpi intermedi sono allo sbando e la stessa società è disarticolata. Naturalmente, tutto questo è accaduto non a causa della tragedia della pandemia, che però ha drammaticamente enfatizzato l’attualità di questa deriva.
A partire dalla crisi della rappresentanza – crisi da intendersi non nei termini di un’incapacità soggettiva a implementarla ma nei termini di impossibilità funzionale in rapporto a una società frammentata – appare in tutta chiarezza la necessità di ripensare la politica e quello che è stato il suo veicolo fondamentale, nel Novecento, ovvero lo strumento-partito.
Una necessità che si articola su vari livelli: ripensare la funzione e non solo la forma del partito e dunque la capacità di produrre elaborazione di progetti, mettendo insieme saperi per il bene comune e aggregando le sterminate risorse della società «civile». Se c’è un modo di far emergere di nuovo i conflitti innovativi – e dar loro prospettiva – è da qui che dobbiamo partire.
CHE FARE e, soprattutto, come fare, dunque? È necessario che il potenziale latente nel corpo sociale trovi espressione, ridando legittimità di interlocutori attivi alle forme organizzative sparse e risorse soggettive, anche in funzione della ricostruzione di «corpi intermedi» all’altezza del presente.
Nella «grande trasformazione» del tardo Novecento, non è tanto la Storia ad essere finita, ma (forse) la Politica, divenuta impotente. Le letture fenomenologiche di questa crisi – quella sulla «fine delle ideologie» come quella della «società liquida» – sono però inefficaci a rimediarvi. Anzi, esse hanno consentito – legittimandola – la scomparsa della prospettiva stessa del conflitto sociale in una visione conservativa di un capitalismo peraltro già da tempo in difficoltà.
La politica ha bisogno di tutti noi, per costruire una società di cittadini capaci di essere pienamente responsabili del proprio destino.
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