Non c’è soltanto l’allarme per un eventuale attentato contro Giovanni Spadolini o Giorgio Napolitano, ipotizzato da una «sottofonte» del Sismi nell’estate 1993, tra le nuove carte depositate nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia.
C’è pure una nota riservata del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, indirizzata al direttore del servizio segreto militare il 20 giugno 1992, che per l’accusa può forse rivelarsi più importante e significativa. Perché certifica che a quella data - un mese dopo la strage di Capaci in cui era stato ucciso Giovanni Falcone, e un mese prima di quella di via D’Amelio in cui sarà trucidato Paolo Borsellino - c’erano precisi segnali sul successivo bersaglio di Cosa nostra: il procuratore aggiunto di Palermo Borsellino, per l’appunto, che «correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, fortemente colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità in seno ai vertici dell’organizzazione». Non solo. In quello stesso appunto si ribadisce che erano a rischio anche i politici siciliani Calogero Mannino e Salvo Andò, già segnalati nelle informative successive all’omicidio di Salvo Lima, bollate dall’allora capo del governo Giulio Andreotti come una «patacca».
Pur senza usare il termine «trattativa», l’appunto del comandante dei carabinieri fa esplicito riferimento agli obiettivi perseguiti dalle bombe mafiose; e sembra collimare con l’idea del ricatto alle istituzioni ipotizzato dall’accusa nel processo che vede alla sbarra boss, ex ufficiali dei carabinieri ed esponenti politici dell’epoca. Tra i quali Mannino, che proprio temendo per la propria vita avrebbe dato l’input per avviare i primi contatti tra investigatori e «uomini d’onore».
Scriveva il generale Antonio Viesti al direttore del Sismi: «Nel quadro dell’attività informativa finalizzata a chiarificare le attuali direttrici operative di Cosa Nostra, sono state acquisite da più fonti fiduciarie notizie circa l’intendimento dei vertici dell’organizzazione criminale di opporsi con determinazione all’attuale azione di contrasto dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti». Con le seguenti finalità: «Indurre un clima di grave intimidazione nei confronti di politici, per flemmatizzare l’impegno contro la criminalità, ed eliminare fisicamente alcuni inquirenti evidenziatisi nella recente, proficua attività di repressione».
Scriveva il generale Antonio Viesti al direttore del Sismi: «Nel quadro dell’attività informativa finalizzata a chiarificare le attuali direttrici operative di Cosa Nostra, sono state acquisite da più fonti fiduciarie notizie circa l’intendimento dei vertici dell’organizzazione criminale di opporsi con determinazione all’attuale azione di contrasto dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti». Con le seguenti finalità: «Indurre un clima di grave intimidazione nei confronti di politici, per flemmatizzare l’impegno contro la criminalità, ed eliminare fisicamente alcuni inquirenti evidenziatisi nella recente, proficua attività di repressione».
Al di là della terminologia usata (il verbo flemmatizzare rientra nel linguaggio militare), al primo punto si può intravedere il presupposto della trattativa attraverso la minaccia ai politici; in particolare quelli siciliani, come Mannino e Andò, che secondo la vulgata poi riferita dai pentiti di mafia venivano considerati traditori di vecchi patti non rispettati, oppure «rami secchi» di un sistema dei partiti a cui Cosa nostra s’era appoggiata in passato e che non serviva più.
Quanto agli inquirenti nel mirino, il nome di Paolo Borsellino scritto in maiuscolo continua a suscitare impressione anche a ventidue anni di distanza: un mese dopo quella informativa, trasmessa a tutti i ministeri e uffici competenti, il commando mafioso poté agire indisturbato davanti all’abitazione della madre del magistrato, dove Borsellino si recava regolarmente; non si riuscì nemmeno a imporre un divieto di sosta con rimozione automezzi per evitare che vi venisse parcheggiata l’autobomba utilizzata il 19 luglio ‘92 per uccidere lui e cinque agenti di scorta.
Quanto agli inquirenti nel mirino, il nome di Paolo Borsellino scritto in maiuscolo continua a suscitare impressione anche a ventidue anni di distanza: un mese dopo quella informativa, trasmessa a tutti i ministeri e uffici competenti, il commando mafioso poté agire indisturbato davanti all’abitazione della madre del magistrato, dove Borsellino si recava regolarmente; non si riuscì nemmeno a imporre un divieto di sosta con rimozione automezzi per evitare che vi venisse parcheggiata l’autobomba utilizzata il 19 luglio ‘92 per uccidere lui e cinque agenti di scorta.
L’appunto dei carabinieri indica come possibili vittime della mafia anche due carabinieri all’epoca in servizio a Palermo: il capitano Umberto Sinico e il maresciallo Carmelo Canale, che lavorava con Borsellino. Nel processo di primo grado contro l’ex generale Mario Mori (ora imputato anche per la trattativa), nel 2012, proprio Sinico testimoniò che a fine giugno ‘92 lui stesso comunicò al magistrato di aver appreso da un confidente che il prossimo bersaglio sarebbe stato lui.
Borsellino gli rispose di esserne consapevole, ma di voler affrontare il pericolo senza alzare troppo le misure di sicurezza per non mettere in pericolo i suoi cari: «Devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia».
Borsellino gli rispose di esserne consapevole, ma di voler affrontare il pericolo senza alzare troppo le misure di sicurezza per non mettere in pericolo i suoi cari: «Devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia».
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