Il rapporto tra discorso pubblico e Liberazione ha conosciuto fasi molto diverse, a volte contrastanti. Si possono certamente individuare delle costanti, ma è ancora più utile riflettere sui mutamenti di fase e sulle loro implicazioni.
Del resto è un fenomeno che si sviluppa in forma sostanzialmente autonoma rispetto alla storiografia, che procede in parallelo: non è certo ininfluente, ma viene recepita, quando accade, molto tempo dopo.
È significativo che una retorica ufficiale prenda forma prima ancora del completamento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già istituita una «giornata del partigiano», fissata, per sottile e inconsapevole ironia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai combattenti italiani, in divisa e per bande, che deve servire a facilitare quelle che vengono immaginate normali trattative di pace. Non servirà a molto su questo terreno, ma per altri versi non sarà affatto inutile: la nuova immagine degli italiani si costruisce anche attraverso il riconoscimento internazionale dell’esistenza di combattenti italiani per la libertà.
Ma notiamo subito alcune caratteristiche che resteranno a lungo impresse nel discorso pubblico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà definita, sull’esempio francese, Resistenza. Il carattere pressoché esclusivamente patriottico, da subito collegato – come probabilmente era «naturale» che fosse – all’esperienza risorgimentale. E il carattere largamente assolutorio del richiamo ad essa: Resistenza utilizzata come lavacro delle colpe collettive, delle complicità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società italiana nei confronti del regime fascista. L’illusione di far parte del novero dei vincitori («anche l’Italia ha vinto» titolava una rivista già alla liberazione della Capitale). Infine, come era inevitabile in quel contesto, il rilievo preponderante se non esclusivo attribuito all’elemento della guerra in armi, sacrificando moltissime componenti dell’esperienza resistenziale che emergeranno lentamente e con fatica nei decenni successivi.
Ma su tutto questo irrompe una brusca cesura a partire dal 1947, con la rottura dell’unità antifascista e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abitueremo a definire della «guerra fredda». Improvvisamente la Resistenza cessa di essere una risorsa e diviene una complicazione, talora un fardello per i governanti. Si inaugura quello che potremmo definire il falso problema della «guerra civile», che contrariamente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pubblico (verrà dismesso solo a partire dagli anni Sessanta) e in termini ancor più deprecativi («guerra fratricida» sarà la formula ufficiale).
In gran parte falso problema perché già ampiamente risolto in termini giuridici dall’amnistia del 1946, perché le sue dimensioni erano state circoscritte in termini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spagnola o ad altri fenomeni, diffusissimi, di collaborazionismo nel corso del conflitto. Infine perché il paese aveva già conosciuto un’autentica guerra fra italiani nel corso di quello stesso Risorgimento cui la memoria pubblica si richiamava con accostamento pressoché obbligato nelle celebrazioni del 25 aprile.
Dietro lo schermo della «guerra civile» si celavano però fratture destinate a rimanere irrisolte nella coscienza nazionale. In primo luogo il problema che potremmo definire della lenta e difficile metabolizzazione del fascismo da parte della società italiana: un lascito di mentalità, culture e consuetudini che agiva sottotraccia ben al di là dell’apparente unanimità del ripudio che aveva segnato i mesi della caduta di Mussolini. In secondo luogo, difficile da cogliere oltre l’ufficialità delle narrazioni, operava la sovrapposizione tra Costituzione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costituzione materiale» anticomunista su cui si modellava il nuovo potere delle classi dirigenti. Una tensione conflittuale che riemergerà in moltissimi momenti della vita repubblicana, e che oltrepasserà anche i confini di quella che verrà definita «Prima Repubblica».
Questo clima comincia a incrinarsi in occasione del primo Decennale, malgrado la divisione perdurante tra le stesse organizzazioni partigiane. L’elezione di Giovanni Gronchi, con un richiamo diretto alla Resistenza, guerra di popolo, e soprattutto con la constatazione che una Costituzione esisteva e andava attuata al più presto (si partirà a breve con la Corte costituzionale) era un segnale di mutamento. Nella lunghissima incubazione del centrosinistra giocherà un ruolo anche il reciproco riconoscimento nei valori riaffermati della tradizione antifascista.
La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un antifascismo vecchio e nuovo, fatto anche di giovanissimi, contro il tentativo di tornare indietro da parte del blocco clericofascista che si era riconosciuto nell’avventura di Tambroni. Da questo momento in poi Resistenza e antifascismo diverranno a lungo centrali nel nuovo discorso pubblico.
Con qualche ambiguità perdurante, che replica i vizi di origine, a volte perfino ingigantendoli. La formula canonica del «popolo unito contro la tirannide» che diviene ricorrente nell’oratoria ufficiale nel tempo della presidenza di Saragat è ancor più assolutoria e ingannatrice di quanto non fosse stata la retorica delle origini repubblicane. Mentre una nuova Germania farà riemergere proprio a partire dalla fine degli anni Sessanta la grande rimozione del passato nazista, metterà sotto accusa la «generazione dei padri» e introdurrà il tema decisivo delle «responsabilità collettive», in Italia questo appuntamento verrà mancato e la problematica del «consenso» al fascismo sarà destinata ad affiorare sotto un segno completamente diverso, non produrrà sensi di colpa ma invece il sollievo della conferma di un giudizio bonario e minimizzante nei confronti dell’esperienza fascista divenuto ormai vox populi.
Le ambiguità saranno presenti anche nel discorso di una «nuova sinistra» che in gran parte anima le manifestazioni e che nel rapporto con la storia si muoverà in termini molto diversi rispetto ai coetanei tedeschi. A lungo la Resistenza verrà sottovalutata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivoluzionario». Alla svolta degli anni Settanta sarà improvvisamente reinventata in forma favolistica, scambiando una parte per il tutto e attribuendo al popolo italiano una propensione rivoluzionaria in gran parte illusoria. Tra le opposte retoriche di Resistenza «rossa» e «tricolore» corre spesso il rischio di venire stritolata la Resistenza popolare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua pluralità di pratiche e di motivazioni, che con grande fatica e con un lungo e imponente lavoro di scavo e di riflessione gli storici faranno emergere con chiarezza negli anni successivi. E che comprendeva inevitabilmente memorie diverse, anche «divise» e conflittuali come si scoprirà tardivamente in seguito, che potevano riconoscersi e riconciliarsi, ma non avrebbero mai potuto convergere in una «memoria unica», stravaganza concettuale degna di un regime totalitario.
A partire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costituzione saranno visti come ostacoli sulla strada della «modernizzazione» del paese. L’Italia prenderà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occidentale, che proprio in quegli anni, anche attraverso una nuova consapevolezza della portata della Shoah, rifletterà sull’enormità del problema storico del fascismo europeo, del suo radicamento, del consenso ottenuto e della catastrofe innescata. Si apriranno, anche su questo terreno, i termini di una nuova «anomalia italiana», che segneranno una lunga fase della storia italiana.
Gli anni della «Seconda Repubblica» sembreranno per quasi un ventennio dominati dall’ansia di offrire una legittimazione storica alla nuova destra, in larga misura estranea oppure ostile alla Liberazione, e che emerge con ampio consenso dopo il dissolvimento del vecchio equilibrio. Ascolteremo nei discorsi ufficiali di presidenti e ministri il richiamo ricorrente alla «buona fede» dei fascisti sconfitti, attribuendo rilievo e centralità a una constatazione di banalità disarmante, perché la buona fede in genere sul piano storico non si nega a nessuno, ed era attribuibile a giusto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di insediamento dei Presidenti della Repubblica il richiamo alle «ragioni» della parte sconfitta nel 1945 apparirà improvvisamente problema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rappresentata da Sergio Mattarella che con un limpido e dettagliato richiamo alla Costituzione antifascista porrà fine a quella pratica discorsiva.
L’antifascismo apparirà inevitabilmente sulla difensiva, costretto a battaglie talora di retroguardia, nelle lunghe polemiche sul cosiddetto «revisionismo», ma in grado ancora di mobilitazioni imponenti, come nella grande manifestazione promossa da questo giornale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfondamento elettorale della destra. E riuscirà anche a respingere nel referendum del 2006 (con uno schieramento animato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scalfaro) l’imposizione di una nuova Costituzione sbilanciata sul terreno del «decisionismo» e del primato dell’esecutivo, e che prefigurava anche il venir meno della coesione nazionale attraverso i meccanismi della cosiddetta «devoluzione» a favore dei particolarismi regionali.
Si era trattato, come oggi comprendiamo bene, di una vittoria apparente. La fase che viviamo appare dominata, a ben vedere, dalla tensione tra l’affermazione, non più messa in discussione, dei valori storici della Liberazione e il disgregarsi in parallelo del mondo di idee e di princìpi che avevano prodotto, dal venir meno delle conquiste di una civiltà repubblicana progressivamente svuotata dei suoi caratteri originari e qualificanti.
Ben oltre la chiassosa destra italiana, la civiltà costituzionale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità impersonali che governano il mondo e trascinano l’Europa al suicidio. Nel maggio 2013 un gigante della finanza globale dirà esplicitamente che le Costituzioni antifasciste nate dopo la seconda guerra mondiale vanno ritenute un ostacolo per la «modernizzazione» e l’«integrazione» dei sistemi economici in Europa. Politici divenuti zelanti sudditi di quella volontà mettono in atto un meccanismo inesorabile che conduce in quella direzione.
Per questo negli ultimi anni la ricorrenza del 25 aprile appare sempre di più una mesta cerimonia degli addii. Un prendere congedo dal mondo in cui avevamo vissuto, dalle nostre speranze e dalle nostre conquiste.
L’ossequio esteriore alla Liberazione non è più messo in discussione, ed essa viene celebrata da cortei di popolo, da donne e uomini che difficilmente possono rendersi conto di vivere la stessa situazione descritta in una famosa poesia di Brecht, inconsapevoli del fatto che «alla loro testa marcia il nemico».
Con ogni probabilità la nostra democrazia parlamentare verrà abolita canticchiando Bella ciao. La Liberazione tornerà a essere, come è stata a lungo nella storia italiana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivitalizzato da nuovi eredi.
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