Non solo Miliband e Cameron. Il secondo dibattito televisivo in vista delle elezioni del 7 maggio, andato in onda la sera del 2 aprile, ha confermato una tendenza che nella politica britannica si osserva ormai da tempo, almeno dal voto di cinque anni fa: il rigido e perfetto bipartitismo all’inglese è agonizzante.
Da uno scontro che ha visto partecipare sette candidati e che, per citare il Guardian, è stato “sempre teso, a tratti sconclusionato e occasionalmente cacofonico” non è uscito un vincitore netto. Ma stando a diversi sondaggi, la figura migliore l’ha fatta Nicola Sturgeon, che lo scorso novembre ha preso il posto di Alex Salmond alla guida dello Scottish national party (Snp) dopo il fallimento del referendum sull’indipendenza scozzese. Dietro di lei l’euroscettico e populista Nigel Farage e, solo dopo, i due pesi massimi: il premier conservatore David Cameron e il leader laburista Ed Miliband.
Certo, comunque andranno le cose a maggio, a Downing street andrà uno di loro due, ma lungo la strada verso le urne i laburisti e i tory dovranno fare i conti con tutti gli altri partiti. L’Ukip, i Verdi, l’Snp e i nazionalisti gallesi, infatti, con ogni probabilità non otterranno un gran numero di seggi, ma nei collegi in bilico il loro risultato sarà determinante per far pendere la bilancia dalla parte dei laburisti o dei tory. Per questo i due partiti principali hanno strategie che a tratti possono anche sembrare contorte: nel confronto del 2 aprile, per esempio, Miliband e Cameron hanno evitato di attaccare frontalmente Farage, mentre a tratti si è avuta l’impressione – come scrive Polly Toynbee sul Guardian – che la tattica conservatrice consistesse nell’offrire una sponda ai partiti in grado di drenare voti dal Labour, quindi Verdi e nazionalisti scozzesi e gallesi.
In realtà, com’era prevedibile, il bersaglio principale di tutti è stato il primo ministro Cameron. Da destra è stato attaccato sull’immigrazione, mentre praticamente tutti gli altri candidati lo hanno criticato per le politiche di austerità e per il nuovo piano di tagli e risparmi da 30 miliardi di sterline. A guidare l’offensiva è stata Nicola Sturgeon, che ha dimostrato di avere un profilo politico solido e che sulla lotta all’austerità e la costruzione di una “alternativa progressista” sta costruendo un consenso anche oltre i confini scozzesi. Ma critiche durissime sono arrivate anche dal liberaldemocratico Nick Clegg, che governa in coalizione con i tory dal 2010. Qualunque risultato uscirà dalle urne il 7 maggio l’ipotesi di una nuova intesa di governo tra libdem e conservatori è quindi da escludere.
Non è da escludere, invece, uno scenario di cui tutti gli analisti e politologi discutono da mesi: nessun chiaro vincitore e un parlamento senza maggioranza, da cui potrebbero uscire una coalizione debole e male assortita o un governo di minoranza e forse, in un secondo momento, nuove elezioni. Per adesso, comunque, i conservatori mantengono due punti di vantaggio sui laburisti. E, soprattutto, i bookmakers – affidabile indicatore di qualsiasi cosa si muova nella società britannica – danno la conferma di Cameron a Downing street 2 a 5. Una scommessa sicura.
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