Il successo che molti partiti di protesta hanno ottenuto nelle elezioni europee dello scorso maggio ha riacceso i riflettori sul populismo, un fenomeno in realtà presente da molti anni nel continente europeo che appare tuttavia sempre più consolidarsi nelle democrazie avanzate.
Il termine populismo, si sa, non gode di ottima fama, sia perché è utilizzato spesso in termini polemici e non descrittivi, e sia perché molto varia è stata la concettualizzazione che ne hanno dato gli specialisti i quali hanno contribuito alla fortuna della diagnosi che nel 1967, durante il primo tentativo fatto per definire il populismo, fece Isaiah Berlin. Secondo il filosofo liberale, il populismo soffriva del «complesso di Cenerentola»: esisteva, cioè, una scarpa, ossia la definizione del populismo, ma non un piede al quale calzasse a pennello. Per questa ragione, il ricercatore, continuava a vagare come un principe azzurro in cerca della sua amata. Da allora i contributi si sono moltiplicati così come il numero di coloro che hanno enfatizzato i contorni troppo incerti del populismo.
Di diverso orientamento è Marco Tarchi, ordinario di Scienza politica all’università di Firenze, ritenuto per molti anni il teorico per eccellenza della «nuova destra» che da anni spiega come sia possibile per le scienze sociale liberarsi di questo complesso. L’ultimo sforzo compiuto in questa direzione è dato dalla pubblicazione deL’Italia populista. Dal Qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino, 2015, pp. 394, Euro 20), una versione ampliata e praticamente riscritta di un testo che apparve per la prima volta nel 2003.
Di diverso orientamento è Marco Tarchi, ordinario di Scienza politica all’università di Firenze, ritenuto per molti anni il teorico per eccellenza della «nuova destra» che da anni spiega come sia possibile per le scienze sociale liberarsi di questo complesso. L’ultimo sforzo compiuto in questa direzione è dato dalla pubblicazione deL’Italia populista. Dal Qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino, 2015, pp. 394, Euro 20), una versione ampliata e praticamente riscritta di un testo che apparve per la prima volta nel 2003.
Un problema di mentalità
L’autore parte dal presupposto che esistano ormai tutti gli elementi per giungere a una definizione generale del populismo cui perviene rifiutando di stabilire se esso sia un’ideologia o semplicemente uno stile politico. Per il politologo, la formula migliore da utilizzare è quella di «mentalità caratteristica», un’espressione introdotta da Theodor Geiger e meglio adoperata da Juan Linz che la distingue proprio dall’ideologia per il suo forte carattere emotivo più che razionale, per essere informe, fluttuante, generica, per coincidere più con un atteggiamento intellettuale che non con un contenuto. Il populismo, perciò, è per Tarchi una mentalità che vede il popolo come un insieme organico, unito da un’etica innata, non diviso da conflitti di alcun tipo al suo interno, al quale vi si contrappongo i suoi nemici che sono i politici di professione, i tecnocrati, le élite economiche e quelle intellettuali che tradiscono quotidianamente la volontà popolare.
Questa mentalità si concretizza con l’utilizzo di un appello diretto al popolo, a opera spesso di leader dotati di forte personalità, con una visione anti-establishment e con un’insofferenza verso i meccanismi di mediazione e di rappresentanza, giudicati come ostacoli alla vera sovranità popolare. Il populismo condivide, inoltre, molti elementi tipici dell’estrema destra dalla quale, tuttavia, l’autore suggerisce di distinguerlo per comprendere meglio entrambi i fenomeni.
La ricognizione sull’Italia comincia con un caso paradigmatico: il «Fronte dell’Uomo qualunque». Il movimento di Giannini, nell’immediato dopoguerra raccoglie le ansie di quell’Italia non antifascista, confusa dal cambio di regime, timorosa di perdere i piccoli privilegi che aveva mantenuto nel corso del ventennio e perciò critica nei confronti dei partiti politici, del parlamento, della Repubblica. Per alcuni anni, al grido di «abbasso tutti!», l’«Uomo qualunque» riscuoterà un certo successo fino a quando, chiusi i rubinetti della Confindustria, che ne aveva finanziato l’epopea, scomparirà dalla scena politica.
La ricognizione sull’Italia comincia con un caso paradigmatico: il «Fronte dell’Uomo qualunque». Il movimento di Giannini, nell’immediato dopoguerra raccoglie le ansie di quell’Italia non antifascista, confusa dal cambio di regime, timorosa di perdere i piccoli privilegi che aveva mantenuto nel corso del ventennio e perciò critica nei confronti dei partiti politici, del parlamento, della Repubblica. Per alcuni anni, al grido di «abbasso tutti!», l’«Uomo qualunque» riscuoterà un certo successo fino a quando, chiusi i rubinetti della Confindustria, che ne aveva finanziato l’epopea, scomparirà dalla scena politica.
Quel che non scompare, secondo Tarchi, è invece il potenziale populista che resta a covare come brace sotto la cenere. La forte ideologizzazione dello scontro politico, la Guerra fredda, la grande azione dei partiti di massa, contengono le esplosioni del populismo che si manifesta solo con sporadiche eccezioni come nel caso di Achille Lauro a Napoli.
Il giacobinismo giudiziario
Quando, però, il sistema politico comincia a scricchiolare, ecco che il populismo ricompare, prima con l’attacco alla partitocrazia lanciato da Marco Pannella e dai radicali e poi, nel 1992, con Tangentopoli quando crolla la repubblica dei partiti. È in questa fase, infatti, che le declinazioni del populismo diventano prevalenti innestandosi su una narrazione nella quale alla politica corrotta, disonesta e inefficacie, viene contrapposta la società civile onesta, operosa, produttiva, eticamente giusta, che al parlare oppone il fare. È un discorso che diventa dominante, grazie ai principali organi di informazione che la sostengono e non prima che l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il democristiano Mario Segni (aiutato in maniera determinante dal Pds di Achille Occhetto) abbiano indebolito la struttura del sistema dei partiti a colpi di piccone e referendum.
A sinistra e al centro sono così emersi movimenti e forze che, sotto le insegne della società civile, hanno imposto il direttismo, il «gentismo» e il giacobinismo giudiziario. Si pensi alla Rete di Orlando, al movimento formatosi attorno alla rivista Micromega e, ancor più, a quello di Antonio Di Pietro.
A destra ha trionfato, invece, Silvio Berlusconi che ha realizzato una leadership populista ma, secondo Tarchi, non ha fatto di Forza Italia un vero partito populista in senso stretto. Soprattutto, a destra, si è imposta la Lega Nord, che per lo studioso è la seconda vera espressione di massa del populismo in Italia. Nata sulla protesta antifiscale, anticentralistica e antimeridionale, la Lega, più che un partito etnoregionalista, rientra nella famiglia dei partiti populisti, come dimostrerebbero la retorica antieuropea, la xenofobia e la leadership tribunizia prima di Bossi e ora di Salvini.
A destra ha trionfato, invece, Silvio Berlusconi che ha realizzato una leadership populista ma, secondo Tarchi, non ha fatto di Forza Italia un vero partito populista in senso stretto. Soprattutto, a destra, si è imposta la Lega Nord, che per lo studioso è la seconda vera espressione di massa del populismo in Italia. Nata sulla protesta antifiscale, anticentralistica e antimeridionale, la Lega, più che un partito etnoregionalista, rientra nella famiglia dei partiti populisti, come dimostrerebbero la retorica antieuropea, la xenofobia e la leadership tribunizia prima di Bossi e ora di Salvini.
La «terza ondata» del populismo, quella degli ultimi anni, acuita dalla crisi economica, ha sancito in Italia il successo di Beppe Grillo e del M5s che Tarchi giudica come «populismo allo stato puro». Col suo essere postideologico (né di destra né di sinistra), con la sua sfiducia nella rappresentanza (ognuno vale uno), con la sua visione dicotomica che vede da una parte il popolo e dall’altra i suoi nemici (l’Europa, le banche, i politici, i tecnocrati, gli intellettuali, gli immigrati), con un leader che sa aizzare le piazze grazie a dosi di teatralità e volgarità, il M5s rappresenta una delle più riuscite espressioni del populismo in Italia.
Se questa è la situazione del nostro Paese, va detto che non siamo soli. In molte parti d’Europa, infatti, sono emersi attori politici della famiglia populista. Uno dei casi più esemplari e duraturi è senza dubbio quello del Front National dei Le Pen — che ambisce, grazie ai buoni risultati elettorali, a diventare il primo partito in Francia — alla cui evoluzione è dedicato il volume Il Front National. Da Jean-Marie a Marine Le Pen (Rubbettino, pp. 202, Euro 18), ultimo lavoro di un giovane studioso, Nicola Genga.
L’autore affronta l’argomento cercando di verificare alcune interpretazioni prevalenti, spesso date per scontate, a cominciare dal presunto carisma del leader Jean Marie che secondo Genga è stato un elemento conseguente al successo, non tanto una sua causa; non fosse altro che nei suoi primi anni di vita il Front raccoglie risultati irrisori, inferiori all’1%, e solo nel 1984 ottiene il primo successo a sorpresa dovuto, in gran parte, alla forte esposizione mediatica che ricevono in quella circostanza il partito e il suo leader.
Lungi dal considerare il Front come un partito «solo» populista, Genga ne inquadra la sua cultura politica all’interno della destra francese mettendo in luce i forti legami che esistono tra i due, determinanti soprattutto nella fase di incubazione. Tra gli anni Ottanta e Novanta, poi, quando il Front comincia a crescere, l’autore nota un intensificarsi di rapporti e, soprattutto, di scambi di personale politico con la destra gollista. Ciò lo induce a preferire l’utilizzo dell’espressione «destra radicale», sia per distinguere il Front dall’isolazionismo, tipico delle destre estreme, e sia per distinguerlo dalle destre liberal-conservatrici e repubblicane. Una destra radicale a connotazione «nazional-populista», insomma, secondo la formula di un altro studioso che si è a lungo cimentato con l’argomento, Pierre-André Taguieff. Non va dimenticato, infatti, che Jean Marie Le Pen venne eletto per la prima volta nelle liste del partito poujadista che Tarchi considera come il prototipo del populismo europeo.
Il successo di Marine Le Pen
Il legame profondo che il Front ha con la destra francese emerge anche in negativo. Analizzando la parabola di Sarkozy, Genga sottolinea l’inversa proporzionalità tra queste due destre spiegando che parte del successo che l’ex presidente riscosse nel 2007 fu dovuto alla sua capacità di rappresentare valori e parole d’ordine della destra lepenista in chiave più rispettabile, riuscendo così a sottrarre consensi al Front.
Il volume si chiude con un focus sulle novità introdotte da quando alla guida è passata la figlia di Le Pen, Marine. Il nuovo Front ha tentato, per ora con successo, un’operazione di cosmesi nella quale ha modernizzato la propria comunicazione, realizzato il restyling del simbolo, espunto dal proprio lessico riferimenti troppo estremisti, come i diversi scivolamenti nel negazionismo. Quelle che non sono cambiate, da Jean-Marie a Marine, sono però le proposte politiche: sicurezza contro gli immigrati, la preferenza nazionale, o meglio un Welfare state che funzioni solo per i cittadini francesi, l’attacco alle istituzioni europee e alla finanza senza che però sia mai messo in dubbio il sistema capitalistico. Non si dimentichi che il Front è stato per anni un fervente sostenitore del liberismo economico.
Con questa formula politica Marine è arrivata al successo del maggio scorso nelle elezioni europee, ma il merito è solo in parte suo visto che, certamente, vi ha contributo l’inefficacia della presidenza Hollande di far fronte a fattori esterni come la crisi economica e le politiche economiche rigoriste. Fattori che incidono ancora in molti Paesi europei e che inducono a ritenere che la storia dei populismi sia ancora lunga.
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