Lo sterco del diavolo concima il perimetro del nuovo potere italiano. Abolita (ma solo dal 2017) quella furbata di finanziamento pubblico dei partiti escogitata con i rimborsi elettorali, il vil denaro ha trovato in anticipo nuovi canali entro cui convogliare la sua forza suadente nei confronti di esponenti politici di caratura piccola o grande, nazionale o locale, indifferentemente.
Parliamo delle fondazioni. Non quelle bancarie né tantomeno quelle culturali. Ma delle fondazioni politiche proliferate negli anni a sinistra come a destra. Organizzano convegni, giornate di studi; editano pubblicazioni; sostengono iniziative pubbliche. E per questi fini - di per sé encomiabili - raccolgono sostegni per lo più privati. Donazioni, atti di liberalità, sottoscrizioni: chiamatele come volete, il senso è chiaro. Chi dispone di più soldi, ha più spazio di manovra e visibilità sulla scena pubblica.
“Le casseforti dei politici”, all’arcipelago finora poco esplorato delle sigle delle diverse fondazioni dedichiamo dunque la copertina di questa settimana. Con i partiti ridotti sempre più in uno stato liquido, destrutturati nelle città e nei luoghi di lavoro, con organismi dirigenti inadatti a decidere, le fondazioni sono diventate centri di potere per le ambizioni di singole personalità o di gruppi e sottogruppi correntizi. Raccolgono fondi senza alcun obbligo di rendicontazione dei soldi ricevuti né di comunicare i nomi dei privati benefattori. Un mondo a parte.
Nell'inchiesta di mafia Capitale compaiono cinque sigle di questo tipo, variamente coinvolte. Collettori di danaro dall’incerta provenienza. Sull’opacità del modo di operare delle fondazioni ha acceso i riflettori il presidente dell’autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in un’intervista all’Espresso della scorsa settimana (n. 50). Se raccolgono finanziamenti, anche cospicui, è lecito domandarsi: da chi, come, perché? Naturalmente non sono tutte uguali queste istituzioni. Come sempre le generalizzazioni rischiano di mettere sullo stesso piano organizzazioni diverse tra loro nel modo di operare; in giro per l’Italia se ne trovano alcune che suppliscono all’asfissia del dibattito politico.
L’Italia tuttavia è uno stupefacente paese nel quale allo sdegno emotivo provocato dagli scandali montanti non corrispondono decisioni adeguate. Così, pur dando atto al governo presieduto da Enrico Letta di aver avviato la cancellazione dei rimborsi elettorali, considerati un’arrogante manifestazione dei privilegi della casta oltre che uno spreco di denaro dei cittadini, non si può non sottolineare l’anomalia rappresentata proprio dalle fondazioni, lasciate fuori da qualsiasi controllo. Il governo in carica ha confermato il percorso intrapreso per arrivare all’abolizione dei finanziamenti pubblici. Anzi, la fondazione che fa capo a Matteo Renzi è l’unica a indicare sul sito internet chi la sostiene: un bel passo avanti rispetto a tutte le altre. Ne va dato atto. Se il premier-segretario opta per la pubblicità dei propri sostenitori, vuol dire dunque che questo potrebbe essere il verso giusto.
Basterebbero poche ma chiare regole per porvi rimedio. Senza scomodare lo statunitense Freedom of information act, serve una norma che imponga alle fondazioni - e alle varie associazioni politiche che stanno svuotando i partiti - di rendere noti i nomi di tutti i contributori e l’entità del finanziamento. Alla luce del sole, come si usa nelle democrazie mature. Solo così si difende l’autorevolezza della rappresentanza politica: garantendole reputazione e consenso sociale. La trasparenza e la correttezza come antidoti all’antipolitica. Malattia senile di un sistema senza regole.
Twitter@VicinanzaL
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