Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali.
Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea. Non un «radicale» dunque, anche se i suoi ultimi studi — Il potere dei giganti e Postdemocrazia, entrambi pubblicati da Laterza — sono stati considerati una corrosiva critica del neoliberismo. Colin Crouch sarà ospite della «Biennale Democrazia».
Sono anni che la discussione sulla democrazia occupa un posto rilevante nella riflessione di filosofi, economisti, sociologi. Lei ha scritto diffusamente di regimi politici postdemocratici, caratterizzati da un paradosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e politici acquisita dalla modernità, ma i centri decisionali sono caratterizzati da logiche che difficilmente possono essere sottoposte al controllo dei cittadini. Stiamo cioè assistendo a una cambiamento della forma-stato. Può spiegare cosa intende per postdemocrazia?
Si, viviamo una situazione paradossale, come lei suggerisce. Oltre che un paradosso, i regimi politici europei e statunitense sono una forma di atrofia della democrazia. La globalizzazione lo rende evidente, così come rende manifesto il fatto che la democrazia (che rimane principalmente nazionale) cessa di esistere sulla soglia dei posti dove si prendono le decisioni più importanti sull’economia. Il declino delle identità di classe e della religione, elementi fondamentale nella definizione delle identità politiche nei primi decenni dei processi di democratizzazione, priva gli elettori di legami con il mondo politico. Ma anche i partiti politici ormai si sentono lontani dalla popolazione e usano i metodi del «marketing» come surrogato dei legami venuti meno con chi dovrebbero rappresentare.
La cattura dell’attenzione creata dal marketing politico crea però legami artificiali, contingenti; e dunque non convincenti. La crescita della diseguaglianza rende infine molto più facile che le élite e le grandi imprese controllino la politica. Questo comporta una trasformazione della forma dello stato. Ciò che stiamo assistendo è la formazione di uno stato post-feudale saldamente nelle mani della nuova aristocrazia delle grandi imprese. Uno stato, tuttavia, che ha una legittimazione democratica. Alle élite non serve quindi più una dittatura per esercitare il potere.
Parallelamente alla discussione della democrazia, c’è quella sul «deperimento» dello stato-nazione, vista la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, come l’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale, il Wto o la Banca mondiale. Eppure assistiamo a una superfetazione dell’intervento statale in termini di norme amministrative che regolano la vita dei singoli. In Inghilterra, ciò è stato qualificato come «politica della vita». Da una parte dunque, perdita della sovranità, dall’altra aumento delle sfere di intervento dello Stato. Come vede lei questa situazione?
Il «deperimento» dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono complesse. Alla luce della globalizzazione, un fenomeno che ritengo positivo, abbiamo bisogno di trascendere lo stato-nazione, perché è un modo di organizzare e gestire la vita pubblica inadeguato rispetto i compiti politici che abbiamo di fronte. Abbiamo bisogno di queste istituzioni sovranazionali. Più che abolirle dobbiamo però lavorare a una loro democratizzazione. Questo vale anche per l’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direculer pour mieux sauter, come dicono i francesi, cioè di arretrare un po’ per meglio compiere un balzo in avanti. È infine vero che la politica nazionale ormai si interessa, forse troppo, delle piccole cose, in una miscela di superfetazione degli interventi sulla vita dei singoli e incapacità di fronteggiare i problemi derivanti dalla globalizzazione.
L’Europa politica e sociale è l’oggetto del desiderio del riformismo socialdemocratico europeo. Tuttavia, l’Europa sembra essere un laboratorio sociale e politico di un neoliberismo in crisi, certo, ma ancora abbastanza forte da definire draconiane politiche di austerità. Cosa nel pensa della situazione europea?
C’è stata sempre una tensione nella politica europea tra il neoliberalismo e una politica sociale, con una egemonia del primo aspetto. D’altronde non possiamo dimenticare che il progetto iniziale era di fare un mercato comune. Ma la «mercatizzazione», benché porta alcuni vantaggi, produce danni sociali. Da questo punto di vista la definizione di politiche sociali è indispensabile per riparare i «danni» prodotti dalle politiche neoliberali.
Per sintetizzare: più si diffonde la «mercatizzazione», più deve crescere l’impegno per sviluppare interventi politico-sociali per stabilirne limiti e argini. Questo è accaduto, seppur parzialmente, durante i lavori delle commissioni europee presiedute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilanciamento» che può essere esercito da parte della politica. È questo un aspetto del trionfo della postdemocrazia. Affinché si sviluppi un’Europa sociale servono proteste e mobilitazioni dei cittadini. Solo in questo modo i governi, le banche e le altre istituzioni (sia nazionali, che europee che internazionali) potranno cambiare la loro agenda.
Per sintetizzare: più si diffonde la «mercatizzazione», più deve crescere l’impegno per sviluppare interventi politico-sociali per stabilirne limiti e argini. Questo è accaduto, seppur parzialmente, durante i lavori delle commissioni europee presiedute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilanciamento» che può essere esercito da parte della politica. È questo un aspetto del trionfo della postdemocrazia. Affinché si sviluppi un’Europa sociale servono proteste e mobilitazioni dei cittadini. Solo in questo modo i governi, le banche e le altre istituzioni (sia nazionali, che europee che internazionali) potranno cambiare la loro agenda.
In tutto il mondo sono cresciute le diseguaglianze sociali. Anche questo rimette in discussione la democrazia. È come se nei gloriosi, meglio sarebbe dire infausti trenta anni di neoliberismo ci sia stato uno spostamento rilevante di potere nella società. Poche centinaia di migliaia di persone hanno redditi e poteri di gran lunga superiore a quelli della maggioranza della popolazione. Lei ha scritto un saggio su questo elemento («Il potere dei giganti»). A che punto siamo di questa tendenza alla crescita delle crescita delle disuguaglianze sociali?
Questo è il tema al centro delle analisi non solo di studiosi autorevoli come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ma anche di organismi come l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale. Dalle loro analisi emerge nelle loro analisi un elemento comune: il negativo impatto economico dovuto alla crescita delle disuguaglianze. Concordo però con Stiglitz quando afferma che ci sono anche aspetti politici scaturiti dalle disuguaglianze sociali. Il principale è che la ricchezza economica può trasformarsi in potere politico; il quale, a sua volta, può essere usato per acquisire ulteriori vantaggi economici. Ma sta a noi interrompere questa spirale alimentata dalla «crescita incardinata sulla crescita delle disuguaglianze sociali».
Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Alessandro Pizzorno, è pervaso dalla convinzione che il conflitto di classe avesse portato a compimento la definizione dei diritti sociali di cittadinanza. Uscì quando era cominciato a spirare il vento neoliberista. Da allora i diritti sociali di cittadinanza sono stato il bersaglio preferito di molte politiche in Europa, mentre la precarietà ha fatto crescere a dismisura l’esercito dei «working poor», che hanno bassi salari e pochissimi diritti. Come vede la situazione dei rapporti di lavoro nel capitalismo?
Il declino dei sindacati — causato principalmente dal declino della gran industria e la crescita dei settori postindustriali non organizzati — ha reso più facile un attacco contro i diritti sociali di cittadinanza. Ora però è importante capire i cambiamenti nel lavoro. Le conquiste operaie e sindacali degli anni Settanta hanno come sfondo un’economia industriale, che non è ovviamente scomparsa, ma è tuttavia segnata da una sistematica condizione «congiunturale» dovuta ai continui e repentini mutamenti nell’economia .
Prendiamo, ad esempio, l’articolo 18 del vostro Statuto dei lavoratori. È una norma pensata e valida in un preciso contesto storico-produttivo tesa a garantire alcuni diritti dei lavoratori, come ad esempio il licenziamento ingiustificato. L’esito delle profonde e drammatiche trasformazioni economiche è la «sparizione» di interi settori produttivi in alcuni paesi europei. Da qui la necessità di elaborare nuove tipologie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavoratori sono costretti a vivere periodi più o meno lunghi di disoccupazione, hanno bisogno di un compenso generoso per continuare a vivere. Allo stesso tempo devono accedere a corsi di formazione professionale finalizzati a trovare un nuovo lavoro. Politiche di questo tipo sono particolarmente deboli in Italia. I sindacati, più che attestarsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovrebbero attivarsi anche per lo sviluppo di politiche del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limitarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe sviluppare nuovi diritti adeguati per l’economia attuale.
Nel suo ultimo libro tradotto in Italia — «Quanto capitalismo può sopportare la società» — lei scrive diffusamente sulla «socialdemocrazia assertiva». Cosa intende con questa espressione?
In ogni paese europeo, i socialdemocratici sono attestati su una posizione difensiva. Credono che il trionfo del mercato e del neoliberalismo li abbiano ridotti a dinosauri in via di estinzione o a pezzi da museo. Ritengo che per i socialdemocratici si aprono nuove e inedite strade politiche da percorrere. Come ho già detto, il mercato crea problemi sociali; è proprio in questa situazione di potere del mercato che abbiamo bisogno delle politiche sociali della socialdemocrazia. Il potere del mercato, delle grandi e spesso globali imprese più mercato, la crescita delle disuguaglianze sociali prevedono la forte presenza della socialdemocrazia che può rappresentare gli interessi sociali, civili, culturali di chi è penalizzato dall’egemonia dell’economia di mercato. Certo, dovrebbe essere una socialdemocrazia innovativa, nel senso di una democrazia «femminilizzata» e verde. Il neoliberalismo non può infatti riuscire a risolvere i problemi sociali e di svuotamento della democrazia creati proprio del neoliberalismo.
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