n esposto presentato alla Procura della Repubblica di Genova riapre le indagini sull'irruzione dei carabinieri nel covo delle Brigate rosse di via Fracchia, trentasette anni dopo il blitz in cui persero la vita quattro esponenti della colonna genovese delle Brigate rosse. Sul covo genovese delle Br si stanno concentrando anche le indagini della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro: nell'archivio brigatista sarebbero stati tenuti documenti relativi alla prigionia dello statista ucciso il 9 maggio 1978.
IL BLITZ
Il 28 marzo 1980, poco dopo le quattro del mattino, i carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo del generale Dalla Chiesa entrarono nell’appartamento al primo piano di un palazzo nel quartiere Oregina di Genova. «I carabinieri, fatti segno a colpi di arma da fuoco, hanno reagito prontamente, sostenendo un violento conflitto nel corso del quale i quattro occupanti dell’appartamento, tre uomini e una donna, sono rimasti uccisi, mentre un sottufficiale dell’Arma è rimasto ferito» riporta il comunicato del comando generale che venne diffuso al termine dell’operazione. I quattro brigatisti uccisi erano Annamaria Ludmann, proprietaria dell’appartamento, Lorenza Betassa, Pietro Panciarelli e Riccardo Dura, l’assassino del sindacalista Guido Rossa. Come scritto nel comunicato dell'Arma, i brigatisti avrebbero aperto il fuoco dopo l'irruzione, ferendo il maresciallo Benà ad un occhio. Solo allora i carabinieri avrebbero sparato, uccidendo i quattro.
Ma per Luigi Giuseppe Grasso quella notte le cose non andarono così. Per questo lo scorso 11 agosto ha presentato un esposto in procura, con cui denuncia «l’omicidio volontario, non so se anche premeditato, di Riccardo Dura». L’Espresso ha contattato Grasso, classe 1947, sfortunato protagonista di un errore giudiziario negli anni ‘80. Venne arrestato dal nucleo antiterrorismo il 17 maggio 1979 con l’accusa di essere una delle menti delle Br genovesi: nel 1984 fu condannato a tre anni di carcere per “partecipazione a banda armata” . Dopo un lungo iter giudiziario, Grasso è stato risarcito dallo Stato italiano per la sua ingiusta reclusione. E fu proprio nel corso di questa vicenda che, nel gennaio 2000, riuscì a mettere le mani sul fascicolo riservato di via Fracchia.
«L’azione di via Fracchia era una perquisizione disposta dal magistrato Di Noto al fine di “acquisire nuovi o ulteriori elementi” a carico mio e degli altri presunti brigatisti arrestati nel maggio del ‘79» afferma Grasso all’Espresso «si doveva perquisire un appartamento sospetto, dato il processo che si sarebbe aperto una quindicina di giorni dopo». E proprio per ciò che è scritto nel mandato di perquisizione che Grasso riesce a ottenere il fascicolo su via Fracchia: «Ancora ricordo il commento del responsabile dell’archivio del Tribunale. “C’è stata un’esecuzione”, mi disse non appena leggemmo i documenti».
L'ESPOSTO
L’esecuzione fu quella di Riccardo Dura. «Come riporta l’autopsia, è stato ucciso da un unico colpo di rivoltella alla nuca, a una distanza tra trenta centimetri e un metro, dall’alto verso il basso. Non aveva nessun graffio, contusione, né proiettile di fucile nel corpo» prosegue Grasso. Sul corpo del brigatista non ci sono colpi di mitragliamento «come invece ci sono sugli altri tre, la cui agonia deve essere stata straziante. Non escludo che, per quanto terribile sia solo immaginarlo, gli spari che li hanno raggiunti in testa siano stati dei “colpi di grazia”».
Nelle quattro pagine dell’esposto, che l'Espresso ha potuto leggere, vengono indicati altri elementi che contrastano con la versione ufficiale del blitz del 28 marzo. Come il ferimento del Maresciallo Benà. «Il foglio di ricovero del carabiniere indica le sei del mattino, un’ora e mezza dopo l’inizio del blitz. Alle cinque e mezza viene avvertito il chirurgo oculistico dell’Ospedale San Martino, dove viene portato da un’auto dei carabinieri» si legge nella denuncia «Il ferimento del carabiniere avvenne evidentemente più tardi e in altro modo. Lo sparo, secondo i rapporti, sarebbe partito dalla pistola del brigatista Lorenzo Betassa, frontalmente. Ma il foro d’entrata non corrisponde: il proiettile entra da dietro. È stato fuoco amico, forse nel trambusto seguito al terribile evento».
«I carabinieri hanno detto di aver sfondato la porta dell’appartamento. Alcuni giornalisti hanno scritto invece che i carabinieri avevano avuto le chiavi da Patrizio Peci e Rocco Micaletto (due capi delle Br che hanno collaborato con la giustizia, ndr). Per me le cose non sono andate in nessuno dei due modi» afferma Grasso all’Espresso «non è credibile che i brigatisti dormissero senza una sentinella in un appartamento “caldo”, né che non avessero la porta serrata. Magari quella notte la porta è stata aperta a qualcuno di conosciuto, di cui ci si poteva fidare».
A sostegno di questa ipotesi, nell’esposto sono riportati alcuni eventi: «Le sorelle di A. R., un mio conoscente, che vivevano nel quartiere Oregina, avrebbero udito delle grida “Traditore, traditore” di una voce di donna». E ancora: «Il 1 gennaio del 2000 andai al bar Guarino di Castelletto con delle persone. Mentre conversavano, indicarono una persona, e dissero “lui è l’unico che si è salvato in via Fracchia”. A tal proposito, la moglie di Guido Rossa ha raccontato di un uomo portato via dall’appartamento, coperto da un giaccone».
LE INDAGINI DELLA COMMISSIONE MORO
Sull’operazione di via Fracchia sta indagando anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Le morti dei quattro Br, infatti, potrebbero essere collegate al rapimento e all'uccisione dello statista. Nell’archivio che i brigatisti tenevano nell’appartamento sarebbero stati trovati manoscritti e registrazioni del presidente della Dc durante i 55 giorni di prigionia. Lo scorso 26 aprile è stato ascoltato il colonnello Michele Riccio, a capo del blitz del 28 marzo 1980, che ha dichiarato: «Siamo arrivati all’appartamento su indicazione di Patrizio Peci e di un altro brigatista arrestato. Abbiamo fatto degli scavi nel giardino da cui è uscito fuori parte dell’archivio brigatista».
Ma nei documenti delle indagini, il giardino non è mai indicato. Il 19 giugno è stato sentito anche il giudice Luigi Carli, che si è occupato del fascicolo di via Fracchia: «Durante riunioni con i giudici torinesi, ho sentito parlare del ritrovamento delle carte di Moro». Neanche di queste c’è traccia nei rapporti.
«Le audizioni che abbiamo svolto in Commissione hanno fatto chiarezza sul ritrovamento di buste di documenti nell'appartamento di via Fracchia che non risultavano negli atti successivi alla perquisizione» dichiara all'Espresso Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro «non si può ancora avere la certezza assoluta che queste carte riguardassero Moro, nonostante il giudice Carli abbia riferito che ne sentì chiaramente parlare nel corso di una riunione con i colleghi di Torino». La commissione si sta occupando anche del possibile coinvolgimento della colonna genovese delle Br nel sequestro Moro: «Ci sono alcuni elementi emersi che fanno riferimento a forti collegamenti tra Mario Moretti (capo della colonna brigatista che rapì e uccise il presidente Dc, ndr) ed esponenti di Genova. Ma al momento non mi è possibile dire più di questo» aggiunge Fioroni.
«Non mi interessa sapere cosa è stato trovato nell’appartamento» conclude Grasso «la mia denuncia si riferisce solo alle anomalie nell’uccisione di Dura e nel ferimento del maresciallo Benà. Al colonnello Riccio, che aveva guidato le operazioni, andrebbe chiesto cosa è veramente successo. Lui conosce gli uomini che erano con lui quella notte e chi e perché ha sparato. Fu attacco di nervi? Una disobbedienza? Un ordine?».
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