mercoledì 7 febbraio 2018

DIBATTITO SUL 68. G. CRAINZ, Non date la colpa al ’68, L'ESPRESSO, 1 febbraio 2018

Dimensione nazionale e internazionale si intrecciano ma forse è bene prendere avvio da realtà concrete, evitando il rischio (sessantottino?) dell’ideologia. E per discutere realmente del nostro ’68, per comprenderne coralità e impatto, non dovremmo dimenticare mai come era la scuola italiana alla sua vigilia, nel vivo di una scolarizzazione di massa tumultuosa: gli studenti delle superiori erano il 10 per cento di quella fascia di età nel 1951, quasi il 40 per cento nel 1967; gli universitari erano 230 mila nel 1958, 550 mila dieci anni dopo.




Una scolarizzazione di massa che avveniva in una fase di intensa circolazione internazionale di idee e suggestioni, in contrasto stridente con una arretrata “cultura docente” molto diffusa: si vedano le testimonianze di insegnanti raccolte allora da Marzio Barbagli e Marcello Dei (“Le vestali della classe media”, da leggere assieme alla “Lettera” di don Milani). «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall’alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: lo scriveva nel 1966 il giornale dei giovani di Azione cattolica, mentre provocava bufere e processi il giornalino del liceo Parini di Milano per un’inchiesta su «quel che pensano le ragazze d’oggi». E il giudice inquirente chiedeva di sottoporre i suoi autori a una umiliante visita medica in base ad una disposizione fascista sui reati dei minori.



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In quello stesso periodo iniziavano ad estendersi le occupazioni delle Facoltà, a partire da Architettura, e Camilla Cederna ne dava conto proprio su “L’Espresso”. «Sono stanchi di copiare il Partenone», titolava nel febbraio del 1965, e non era solo una coloritura giornalistica: gli studenti chiedevano l’introduzione di materie ancora ignorate dai piani di studio come Storia dell’architettura moderna e Urbanistica (in un’Italia ormai invasa dalla speculazione edilizia). In un manifesto-simbolo del ’68, quello degli studenti torinesi, vi è l’elenco dei “controcorsi” avviati nell’Università occupata, dedicati a temi ancora esclusi dall’insegnamento: Filosofia delle scienze, Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e repressione sociale, Imperialismo e sviluppo sociale in America latina...

La critica del ’68 all’Università fu certo impietosa ma non era molto diversa l’analisi di un commentatore come Alberto Ronchey, che pur chiedeva di «Offrire un’alternativa agli errori degli studenti». Ed enumerava le ragioni di una crisi partendo da Roma: «60.000 studenti, 300 professori» (si riferisce ai professori ordinari, detentori esclusivi di ogni potere: non era improprio definirli “baroni”). E poi: «La seconda crisi riguarda gli uomini. Prima il professore era il re, adesso il re è nudo. La terza crisi discende dall’insegnamento dispotico, elusivo o muto sui temi che interessano gli studenti»; e poi ancora «le comunicazioni di massa, che rendono vicino ogni evento del mondo», «la rottura di linguaggio tra le generazioni», la crisi dei «partiti, i rapporti fra Stato e società e civile (...). L’ultima generazione non vede un disegno del tipo di società verso cui vogliamo andare» (“La Stampa”, 18 febbraio 1968). Poco dopo Giorgio Bocca annotava: in pochi mesi «si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata», e che dall’Università «escono dei giovani incapaci di esercitare una professione».

Nel rapido dilagare del movimento studentesco differenti umori e pulsioni convissero e parvero quasi fondersi (ha ragione Roberto Esposito): anticonformismo e impegno politico, laicizzazione e solidarismo sociale, insofferenza per arretratezze anacronistiche e aspirazioni a profondi rivolgimenti, mentre la realtà del Paese dava molti argomenti a chi vedeva in ogni ingiustizia una “ingiustizia di classe”. E bisognerebbe ricordare la realtà delle fabbriche di allora, nell’intrecciarsi di forme di sfruttamento talora brutali, discriminazioni inique, illibertà (solo nel 1970 lo Statuto dei lavoratori vi introdurrà la Costituzione, come si disse): vedere “imborghesimento” in quegli operai è una licenza filosofica che non condivido.


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Certo, la coralità dei primi mesi iniziò progressivamente ad incrinarsi e la radicalizzazione ideologica rapidamente prevalse. Ad essa contribuirono anche la balbettante ottusità del potere accademico, il succedersi di interventi repressivi sproporzionati e l’assenza di un’azione riformatrice (fu la politica a mancare in Italia, non il ’68 a distruggerla: in Francia fu varata in pochi mesi la riforma Faure, che avviò la modernizzazione degli atenei e pose rapidamente fine alle proteste studentesche). E vi contribuì poi una radicalizzazione più generale: il 1969 sarà segnato dall’ “autunno caldo” sindacale e dalla strage di Piazza Fontana, con l’avvio di una drammatica “strategia della tensione”. In quel clima declinò - colpevolmente - l’impegno del movimento a rinnovare l’Università, considerata sempre più area di reclutamento per i gruppi extraparlamentari in formazione. Con l’infittirsi degli interventi in fabbriche e quartieri, e con il dilagare di una vecchissima (e disastrosa) ideologia: abbandonata la fase innovativa degli inizi, ha scritto Vittorio Foa, «straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero».

Fu lasciata così cadere la suggestiva idea, pur avanzata, di dar corpo a una “Università critica”: base d’avvio di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» volta a innovare saperi e professioni; e a «ridefinire la politica», per usare l’espressione di Carlo Donolo. Non mancarono neppure disincanti e ripiegamenti ma non è riducibile a questi estremi la spallata data allora ad un’Italia arcaica: da quei fermenti venne un più generale impulso alla modernizzazione civile, ad una più ampia concezione dei diritti, ad una maggiore sensibilità sociale. Si incrinò anche così il tradizionale profilo del ceto medio italiano, profondamente segnato sin lì da apatie e conservatorismi.

Naturalmente il passaggio dalla prima fase a quella successiva non può essere rimosso (e costringe a interrogare criticamente anche i mesi “aurorali”) ma non mi sembra fondato schiacciare gli anni Sessanta sugli anni Ottanta, e neppure sugli anni Settanta (la contrapposizione del “movimento del ’77” agli operai, sprezzati come “garantiti”, è l’esatto opposto del sessantottesco “operai e studenti uniti nella lotta”). Né mi sembra fondato il «rapporto stretto» che Orsina intravede fra il ’68 e tutti i disastri dell’oggi, in uno scenario nazionale e internazionale squassato da allora in ogni sua parte. E nella nostra lettura complessiva è possibile continuare a ignorare gli studenti della Cecoslovacchia e della Polonia (o della Jugoslavia, con le divaricanti tensioni che vi comparvero), giustamente ed efficacemente evocati su queste pagine da Wlodek Goldkorn e da Gigi Riva?

Nel ’68 di Praga e di Varsavia si ebbe la conferma definitiva che il “socialismo realizzato” non era riformabile e presero avvio anche da lì alcuni degli esili ma straordinari fili che porteranno all’89. Continueremo a considerarla “un’altra storia”?

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