lunedì 7 gennaio 2013

RIFLESSIONI SUL MONDO DELLA CRISI. FERNANDO SAVATER, Riflessioni sul mondo della crisi. Intervista di Giusto e Perrelli, L'ESPRESSO, 2 gennaio 2013

L'austerità spinta all'eccesso non risolve i problemi. Per uscire dalla catastrofe prodotta dal capitalismo speculativo punterei piuttosto sull'istruzione. Da sola, nei tempi urgenti della politica, non può rilanciare i consumi e stimolare la crescita. Ma anche in quest'anno zero un investimento sulla formazione professionale può avere una forte incidenza nella soluzione delle questioni più gravi...



Nella sua casa di Madrid, coi muri fittamente tappezzati da quadri allegorici e da foto di celebrità, il filosofo Fernando Savater riflette sulla crisi che gli scorre sotto gli occhi («Amici avviliti nelle ristrettezze, negozi costretti alla chiusura, tutto che diventa ogni giorno più triste») e prova a disegnare scenari per superare la Grande Depressione.

«Per cinque anni», spiega, «l'unica ancora di salvezza sia in Spagna che in Italia è stata la famiglia, una sorta di ong magica che ha assolto la funzione di ammortizzatore sociale. Ma le risorse ormai si sono assottigliate. E' necessario uno scatto che deve coinvolgere soprattutto le nuove generazioni. E' tempo che i giovani riscoprano il valore dell'istruzione. Qui in Spagna per troppo tempo sono stati quasi incentivati ad abbandonare gli studi per inserirsi nel settore turistico. Lasciavano la scuola a sedici anni e andavano a servire i cocktail alle bagnanti straniere alle Baleari o in Andalusia. Abbindolati dal guadagno immediato, dai lustrini di una vita gradevole e senza troppi impegni. Traviati dai miti ingannevoli della tv e dei giornali che dedicavano largo spazio alle modelle e agli assi dello sport. Oggi che il turismo è crollato quei ragazzi non sanno più che fare. Disorientati sono gli stessi "indignados" del movimento 15M che fino a qualche anno ostentavano disinteresse per la politica. Credevano di avere il futuro assicurato e quando si sono resi conto che le prospettive si facevano incerte sono passati dall'essere apolitici ad antipolitici Ma la parte più difficile è la proposta, non la protesta. E per costruire è necessaria la preparazione. I Paesi che usciranno per primi dal tunnel sono quelli che avranno saputo investire in istruzione e formazione».

Savater, nei suoi saggi lei pone spesso l'accento sui valori dell'etica. Non pensa che uno scatto debba investire anche questa sfera, duramente attaccata nei paesi mediterranei dai virus della corruzione?
«L'etica è sempre individuale, mai collettiva. I paesi mediterranei sono più che altro vittime di una pericolosa illusione. Quella del credito facile, dell'evasione mai perseguita delle tasse, dei paradisi fiscali. Un mondo fittizio. Costruito sulle fragili palafitte di un'abbondanza artificiale e di una quasi totale mancanza di controlli. Era scontato che prima o poi la realtà dovesse presentare il conto. Purtroppo gli esseri umani, i normali cittadini come i banchieri, difficilmente rinunciano a compiere tutto il male che le circostanze consentono di fare».

Perché in Europa i Paesi nordici sono meno esposti a queste debolezze?
«I paesi anglosassoni hanno sviluppato un'etica del lavoro che li difende meglio dai deragliamenti. Ma quelli mediterranei non soffrono di una predisposizione naturale ad andare contro le regole. Le città italiane erano ordinate e pragmatiche ai tempi del Rinascimento. Le banche sono state inventate a Venezia. In seguito è possibile che il protestantesimo abbia inculcato nel Nord Europa più senso del rigore e della disciplina di quanto sia riuscito a fare il cattolicesimo nel Sud del continente. Non esiste però un mal mediterraneo. La Grecia è franata perché ha scarse risorse e ha truccato i bilanci per entrare nella Ue. In Spagna si è puntato troppo sul turismo e sull'edilizia ma non si brevetta mai niente. Non si può vivere di sole e spiagge. In Italia va già meglio, c'è più equilibrio. Influisce poi molto la severità delle sanzioni. Come indole gli svedesi non sono più virtuosi degli spagnoli o degli italiani. Il problema è che da noi è dilagata l'impunità soprattutto per i reati del settore pubblico. La cleptocrazia non è però un problema esclusivo dei popoli latini. In Giappone, paese di cultura molto differente dai nostri, sono esplosi scandali anche più clamorosi. Gli uomini, sotto qualsiasi latitudine, si assomigliano molto più di quanto ci piaccia riconoscere. A fare la differenza è la serietà delle istituzioni».
Occorrono nuovi leader?
«I politici non rappresentano una casta scesa da un altro pianeta per angariare la vita di noi terrestri. Il problema è che sono quasi sempre simili ai cittadini che li hanno eletti. Se si comportano male è anche colpa nostra che li abbiamo scelti e non siamo stati capaci di designarne di migliori».

Esistono anche i rischi del populismo che, anziché favorire la ripartenza, minacciano di riportare indietro le lancette dell'orologio.
«Sì, quando la democrazia sbaglia le sue offerte immediatamente si riaffacciano le suggestioni del populismo. In Italia le cavalca Silvio Berlusconi, uno spettro che non sparisce mai. In Spagna Artur Mas, con le sue pulsioni secessioniste. Da voi poi emergono figure nuove come Beppe Grillo. Si può ragionevolmente pensare che i nodi della vita pubblica vengano sciolti da uno che si vanta di non essere un politico? Questi personaggi sono come i "curanderos" che combattono i tumori con le erbe e le magie. Ma intanto colmano un vuoto. Prendiamo Mariano Rajoy: segue ossessivamente quello che gli ha detto l'Europa ma ha dovuto rimangiarsi le promesse fatte in campagna elettorale. Esaminiamo Mario Monti: è serio ma è un tecnocrate, agisce come se stesse in un'aula universitaria più che nel mondo reale. La competenza tecnica è un valore, ma deve avere un orientamento politico. Oggi bisognerebbe indurre gli stessi leader ad adeguare la loro personalità, non solo sfruttando al meglio le grandi risorse di conoscenza che vanta il nostro continente, ma utilizzando di più Internet e le nuove frontiere della tecnologia. L'iPhone appartiene ormai alla sfera della cultura non diversamente dai libri. L'accesso alle fonti del sapere non è mai stato facile come oggi. Internet da sola forse non educa. Ma se sei già educato per conto tuo, dalla Rete puoi ricavare grandi vantaggi».

Non occorrerebbero leader giovani per affrontare con spirito più moderno il futuro?
«Rinnovarsi è obbligatorio, specie in un'epoca di rivoluzione tecnologica. Ma l'età è un fattore relativo. Il governo Zapatero era composto da politici giovani. "Chi ha più di 45 anni è in errore", veniva proclamato con spavalderia. Alla lunga è avvenuto il disastro. Ci sono stupidi e intelligenti in tutte le fasce di età».

Reggerà l'impalcatura dell'Europa nel prossimo decennio?
«Reggerà solo a patto che si realizzi una vera unione politica. Con due elementi imprescindibili: fisco ed esercito comuni. Non è un traguardo utopistico. Alcuni pilastri ci sono già. In primo luogo non credo che l'euro sparirà. Sarebbe un problema più grande disfarsene che mantenerlo. E poi sul piano della cultura l'Europa è già da tempo unita. Non c'è persona di buoni studi che, anche se nata in Austria, non legga Dante o Shakespeare».
Un'unione ostacolata dalla supremazia tedesca e dall'euroscetticismo inglese.
«La Germania segue i suoi interessi. Chi paga comanda. In realtà è difficile che Angela Merkel rinunci alla leadership. Ma in una prospettiva più larga anche a Berlino potrebbero convenire i vantaggi di un continente politicamente unito. Lo scetticismo della Gran Bretagna deriva dal fatto che si è sempre collocata a metà strada fra l'Europa e gli Stati Uniti con cui vanta un vincolo forte. Se le cose volgessero al peggio, non mi sorprenderei se Londra tagliasse i ponti con Bruxelles».

Negli Usa sono già evidenti i segni di ripresa. Il modello americano può ancora essere un riferimento per l'Europa?
«Fino a qualche tempo fa la destra americana rimproverava a Barack Obama di ammiccare al sistema europeo. Oggi Washington sembra più coinvolta nel confronto con la Cina che erediterà la supremazia mondiale in un prossimo futuro. E' possibile che fra breve gli americani si trovino alle prese con gli stessi problemi di identità che abbiamo affrontato noi in questa fase di decadenza».

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