Ormai in lizza autorevole per le elezioni politiche Pier Luigi Bersani parlerà ancora a lungo nei prossimi mesi e, fedele all'immagine che si è creato, di persona di buon senso popolare, immagino che farà ancora uso di quelle che lui e altri definiscono ormai come le "metafore di Bersani", e che io da ora in avanti chiamerò "bersanemi" per le ragioni di cui dirò. I bersanemi hanno dato origine a una divertente serie di emulazioni, a partire da Crozza e, se pure l'origine dei suoi detti risale ad antiche saggezze popolari, Bersani ha creato un genere letterario.
IL FENOMENO E' ORMAI di tale portata che non siamo più in grado di distinguere i bersanemi originali da quelli inventati da Crozza, e Bersani stesso ha partecipato a confronti col comico genovese, talora riprendendo suoi vecchi e venerabili detti e talora impadronendosi di quelli del suo parodista. Pertanto si possono citare come bersanemi, distinguendoli solo per efficacia proverbiale ed effetto umoristico, senza preoccuparci della loro paternità, tutti i casi in cui si affermi che non siamo qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i leopardi (o i giaguari), a spalmarci la brillantina sui peli del petto, a tagliar via i bordi ai toast, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole, a rompere le noci a Cip e Ciop, a rimettere il dentifricio nel tubetto, a fare il parmigiano con il latte di soia, a innaffiare l'orto con la cedrata Tassoni, a far l'elemosina all'uranio impoverito...
Bersani ha ammesso che i suoi detti sono un modo di parlare democraticamente a tutti gli elettori, e a tradurre in parole semplici un concetto complesso. Ma quello di cui voglio occuparmi è solo un equivoco tecnico che a mio parere non è irrilevante, perché non bisogna, in un'era di calo dell'informazione culturale e dei buoni usi linguistici, diffondere idee sbagliate – anche se l'errore è irrilevante dal punto di vista politico. I bersanemi non sono metafore e non bisogna incoraggiare i ragazzi ad andarlo a dire all'esame di maturità. In termini di teoria della retorica (da Aristotele ai giorni nostri) una metafora è un "tropo" in cui a un termine letterale se ne sostituisce un altro che tende certamente a definire meglio ciò di cui si parla, ma che se fosse preso alla lettera sarebbe una falsità. Dire di una cantante che è un usignolo è letteralmente falso, perché una soprano non è un uccello, ma vuole creare l'idea che quella donna canti in modo favoloso. Dire che Balotelli è un fulmine è falso, perché il giovanotto non è un fenomeno atmosferico, ma esprime la sua rapidità come goleador. Invece dire che qualcuno pettina le bambole e taglia i bordi al toast non suona letteralmente falso, salvo che esprime un'attività che è certamente complessa ma fondamentalmente inutile e contraria al buon senso; che qualcuno voglia spalmare l'Autan sulle zanzare non è impossibile, anche se fa pensare che stia perdendo tempo senza costrutto.
PROVIAMO DUNQUE , definito un bersanema come X, a pensare che ogni occorrenza degli X presuma la premessa "ragazzi, non stiamo a perdere tempo a fare qualcosa di complicato e stupidamente inutile come X". Ecco, ho sfogliato tutti i manuali classici di retorica e ne ho concluso che un bersanema è un "esempio", figura retorica per cui, invece di definire una serie molto vasta di cose, si ricorre alla citazione di un caso singolo (per esempio "non stiamo qui a pensare di salvare la repubblica ammazzando Cesare quando poi apriamo la strada ad Augusto"). Salvo che gli esempi dei bersanemi rappresentano azioni che per la loro faticosità e inutilità appaiono paradossali, e per questo fanno ridere. Quindi un bersanema è un esempio di "esempio paradossale", dove l'azione citata contrasta con l'opinione diffusa o universalmente accettata, con il buon senso e l'esperienza comune... Chiarito il problema, per tigna di semiologo, ben vengano i paradossi espressi dai bersanemi, purché non si continuino a fare cose faticose e stupidamente inutili
Nessun commento:
Posta un commento