venerdì 4 gennaio 2013

ITALIA. VERSO LE ELEZIONI. POPULISMI. MICHELE PROSPERO, C’è un populismo di centro, L'UNITA', 4 gennaio 2013


Ora che Mario Monti ha smesso gli abiti di un distaccato uomo delle istituzioni per assumere quelli di un combattivo capo di parte, è lecito aspettare più chiarezza sulla sua effettiva collocazione politica e culturale. E, per certi versi, il suo più recente documento («Un movimento civico, popolare, responsabile») alcune risposte risolutive, se pur tra le righe, le dà.




Sebbene rivendichi una vocazione maggioritaria che lo induce alla corsa solitaria, poi Monti ammette che se, come è probabile, non avrà i numeri indispensabili per governare da solo, in aula sarà disposto a ricercare le necessarie convergenze. Con chi è pronto a stipulare intese? E qui Monti disegna un profilo non reticente: per il dopo voto, occorre un patto di governo con le forze pronte ad arginare il populismo antieuropeo.
Il suo antagonista non è quindi diverso da quello indicato dal Pd. E così, per dopo le urne, anche se sotto traccia, Monti prenota un appuntamento con Bersani. Nella sostanza, l’operazione politica di Monti è un soccorso al centro moderato (espressione peraltro da lui bandita) per condizionare, da una posizione di più cospicua consistenza numerica, la probabile maggioranza raccolta dal Pd. È chiaro che la premura reale non è quella di battere le destre (il centro avrebbe altrimenti fatto causa comune al Pd per sbarrare a Berlusconi il premio di maggioranza), bensì quella di abbozzare una sfida competitiva per limitare la capacità di manovra del Pd.
I reali rapporti di forza a febbraio daranno un responso sulla efficacia del progetto montiano di impedire che la sinistra abbia la maggioranza assoluta anche al Senato. Già ora però emergono talune zone di ambiguità nel documento che negli intenti dovrebbe configurare il profilo culturale del partito di Monti. Anzi del movimento, della formazione, dell’associazione perché Monti estrae dal canestro delle parole tutti questi altri sinonimi, pur di non pronunciare mai la demoniaca locuzione «partito».
È strano che proprio chi innalza lo spauracchio deforme del populismo, fino a renderlo il nemico mortale in agguato, poi accarezzi il pelo dell’antipolitica che si esibisce nello spettacolo del rigetto viscerale dell’idea di partito. Si può sul serio dichiarare guerra al populismo e poi concedergli lo scalpo più agognato, quello cioè della mediazione politica affidata ai partiti?
Proprio nella forte avversione alla forma-partito si cela una arretratezza culturale di un movimento che pure dell’Europa fa la stella polare. In quale altro sistema politico europeo la realtà di partito è così disprezzata? L’integrazione nelle forme organizzate della politica europea non è certo meno vitale per l’Italia che la condivisione della moneta, del mercato e della concorrenza. Malgrado il suo fulmineo viaggio nel cuore del Ppe, Monti ancora oggi esita ad assumere un volto politico e identitario ben definito. Egli si attarda a cavalcare le vaghe formule di un provincialismo italico (come quella stravaganza per cui conservatore è chi prospetta diritti, equità, principi di giustizia).
Quando, con il suo movimento «popolare e riformista» che tace sul lavoro, sulla questione sociale e sui diritti civili, fa un cenno sui conflitti di interesse e si commuove per il merito, si prefigge nientemeno di «superare i vecchi schemi della politica del Novecento», Monti dà prova di velleitarie ambizioni. Vuole andare in Europa senza accorgersi che dappertutto funzionano i vecchi schemi che dividono i cittadini tra destra e sinistra. Egli dichiara di non essere di centro e di non sentirsi moderato. E aggiunge che, anzi, le vecchie ripartizioni dello spazio politico in destra e sinistra sono degli sviamenti concettuali. Qualche sussulto viene quando Monti precisa il suo «associazionismo civico» è una risposta ai populismi di destra e di sinistra. Ma non erano scomparse le categorie di destra e sinistra? E poi perché non accenna anche ai populismi di centro, che pure esistono?
Non c’è qui solo un peccato di omissione. Il guaio è che le orme di un populismo di centro sono ben scolpite anche nel testo di Monti. E sono nitide allorché si prefigge di «potenziare gli strumenti di controllo democratico e i vincoli di verifica sulla qualità e la coerenza del mandato parlamentare che siano anche funzionali al rinnovamento costante del personale politico». E cosa sarà mai? La verifica dei deputati dopo sei mesi, nello stile di Grillo? Il sogno rivoltoso marxista-leninista di un mandato imperativo che oggi scalda il cuore dei seguaci di Montezemolo?

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